The Teachings of Ajahn Chah
A collection of Ajahn Chah's translated Dhamma talks
© Ass. Santacittarama, 2004. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Silvana Ziviani.
Il seguente discorso fu informalmente offerto dal Ven. Ajahn Chah a un monaco studioso, venuto a rendergli omaggio.
La vera ragione per studiare il Dhamma, gli insegnamenti del Buddha, è quella di trovare un modo per trascendere la sofferenza e realizzare la pace e la felicità. Sia che studiamo i fenomeni fisici o mentali, la mente (citta) o i fattori psicologici (cetasika), siamo sulla retta via solo quando poniamo la liberazione dalla sofferenza come il nostro scopo ultimo. La sofferenza esiste per sue precise cause e condizioni.
Cercate di capire che la mente, quando è tranquilla, si trova nel suo stato naturale, normale. Appena si muove, diventa condizionata (sankhara). Quando la mente è attratta da qualcosa, diventa condizionata. Quando sorge l’avversione, diventa condizionata. Il desiderio di muoversi qua e là nasce dal condizionamento. Se la nostra consapevolezza non riesce a tenere il passo con queste proliferazioni mentali man mano che nascono, la mente si metterà a inseguirle e ne sarà condizionata. Ogni volta che la mente si muove, in quel momento preciso, diventa una realtà convenzionale.
Perciò il Buddha ci ha detto di contemplare queste fluttuanti condizioni mentali. Ogni volta che si muove, la mente diventa instabile e impermanente (anicca), insoddisfacente (dukkha) e non può essere considerata un sé (anatta). Queste sono le tre caratteristiche universali di ogni fenomeno condizionato. Il Buddha ci ha insegnato ad osservare e contemplare questi movimenti della mente.
La stessa cosa vale per l’insegnamento dell’origine dipendente (paticca-samuppada): la comprensione errata (avijja) è la causa e condizione del sorgere delle formazioni volitive kammiche (sankhara); che sono la causa e condizione del sorgere della coscienza (viññana); che è la causa e condizione del sorgere di mente e materia (nama-rupa), e così via per tutta la sequenza che abbiamo studiato nelle Scritture. Il Buddha ha separato ogni anello della catena per rendere più facile lo studio. E’ un’accurata descrizione della realtà, ma quando questo processo avviene per davvero nella vita reale, gli studiosi non sono in grado di tener dietro a quello che succede. E’ come cadere dalla cima di un albero e schiantarsi al suolo. Non abbiamo la più pallida idea di quanti rami abbiamo passato cadendo. Allo stesso modo, quando la mente è improvvisamente colpita da un’impressione mentale, se è gradevole, allora si lascia trasportare dal buon umore. La considera buona senza rendersi conto della catena di condizioni che l’hanno resa possibile. Il processo avviene seguendo le linee impostate teoricamente, ma contemporaneamente va oltre i limiti della teoria stessa.
Non c’è niente che ci avverta: “Questa è illusione. Queste sono formazioni volitive kammiche e questa è coscienza”. Il processo non permette allo studioso di seguire l'evento man mano che avviene come si seguirebbero le varie voci di una lista. Sebbene il Buddha abbia analizzato e spiegato la sequenza dei vari momenti mentali dettagliatamente, per me corrisponde più al cadere da un albero. Mentre precipitiamo non abbiamo la possibilità di valutare di quanti metri e centimetri siamo caduti. Quello che sappiamo è che abbiamo toccato terra con un tonfo e che fa male!
Lo stesso vale per la mente. Quando inciampa in qualcosa, ciò che sentiamo è il dolore. Da dove viene tutta questa sofferenza, dolore, angoscia e disperazione? Non viene certo da una teoria scritta in un libro! Non c’è nessun libro in cui vengono scritti i dettagli della nostra sofferenza. Il dolore non corrisponde alla teoria, anche se i due viaggiano insieme sulla stessa strada. Perciò la sola erudizione non può stare al passo con la realtà. Ed è per questo che il Buddha ci ha insegnato a coltivare la chiara comprensione per conto nostro. Qualsiasi cosa nasca, nasce in questa comprensione. Quando colui che conosce, conosce secondo verità, allora la mente e i fattori psicologici vengono riconosciuti come non nostri. Alla fine tutti questi fenomeni devono essere abbandonati e gettati via come se fossero spazzatura. Non dobbiamo attaccarci ad essi e tanto meno dargli importanza.
TEORIA E REALTA’
Il Buddha non ci ha insegnato a guardare la mente e i fattori mentali perché ci attaccassimo ai concetti. La sua sola intenzione era che li riconoscessimo come impermanenti, insoddisfacenti e senza un sé. E poi dobbiamo lasciarli andare. Metterli da parte. Siatene consapevoli e conosceteli nel momento che sorgono. Questa mente è già stata condizionata. E’ già stata addestrata e condizionata a girare su se stessa e a stare lontana da uno stato di pura consapevolezza. Man mano che gira, crea fenomeni condizionati che la influenzano ulteriormente e in tal modo la proliferazione va avanti, producendo il bene, il male e ogni altra cosa sotto il sole. Il Buddha ci ha insegnato a lasciar perdere tutto. All’inizio però dovete familiarizzarvi con la teoria in modo che, in un secondo tempo, sarete in grado di lasciar andare ogni cosa. E’ un processo del tutto naturale. La mente è semplicemente così. I fattori psicologici sono semplicemente così.
Prendete, ad esempio, l’Ottuplice Nobile Sentiero. Quando la saggezza (pañña) vede le cose correttamente attraverso l’intuizione profonda, questa Retta Visione porta a Retta Intenzione, Retta Parola, Retta Azione, e così via. Sono tutte condizioni psicologiche che sorgono da questa pura conoscenza consapevole.Tale conoscenza è come una lampada che illumina il sentiero in una notte buia. Se la conoscenza è giusta e corrisponde alla verità, si diffonderà e illuminerà tutti gli altri tratti del sentiero.
Qualunque cosa sperimentiamo, sorge dall’interno di questa conoscenza. Se non esistesse questa mente, non esisterebbe neanche il conoscere. Sono tutti fenomeni della mente. Non c’è un essere, una persona, un sé, un noi. Non c’è un noi né un loro. Il Dhamma è semplicemente il Dhamma. E’ un processo naturale, privo di un sé. Non appartiene a noi né a nessun altro. Non è una cosa. Qualsiasi cosa uno sperimenti fa parte di una delle cinque categorie fondamentali (khanda): corpo, sensazioni, memoria/percezione, pensieri e coscienza. Il Buddha ci ha detto di lasciar andare tutto.
La meditazione è come un bastoncino di legno. La visione profonda (vipassana) è un’estremità del bastoncino e la tranquillità (samatha) l’altra. Se prendiamo in mano un bastoncino, abbiamo solo un’estremità o tutte e due? Quando uno raccoglie un bastone, prende tutte e due le estremità. Qual è vipassana e quale è samatha allora? Dove finisce una e comincia l’altro? Tutte e due sono la mente. All'inizio la mente diviene tranquilla, e la pace le deriva dalla serenità di samatha. Concentriamo e unifichiamo la mente in stati di pace meditativa (samadhi). Tuttavia se la pace e l’immobilità del samadhi scompaiono, al suo posto sorge la sofferenza. Perché? Perché la pace indotta dalla sola meditazione samatha è basata sempre sull’attaccamento. E questo attaccamento può causare sofferenza. Il Buddha vide attraverso la propria esperienza che questo tipo di pace mentale non era quella ultima. Le cause che sottendevano il processo di esistenza (bhava) non erano ancora state portate a cessazione (nirodha): sussistevano ancora le condizioni per la rinascita. Il suo lavoro spirituale non era ancora completo. Perché? Perché c’era ancora sofferenza. Perciò, partendo dalla serenità di samatha, continuò a contemplare, a investigare e ad analizzare la natura condizionata della realtà fino a che si sentì libero da ogni attaccamento, anche da quello alla tranquillità. La tranquillità è sempre parte del mondo dell’esistenza condizionata e della realtà convenzionale. Attaccarsi a questa pace è attaccarsi alla realtà condizionata, e finché ci attacchiamo rimarremo impantanati nell’esistenza e nella rinascita. Godere della pace di samatha porta a ulteriori esistenze e rinascite. Una volta che l’agitazione e l’irrequietezza della mente si calmano, ci si attacca alla pace che ne risulta.
Il Buddha esaminò le cause e le condizioni che sottendono l’esistenza e la rinascita. Fino a che non penetrò completamente il problema e non capì la verità, continuò a sondare sempre più in profondità con la mente calma, riflettendo su come tutte le cose, che siano calme oppure no, vengono all’esistenza. La sua indagine fu portata avanti con decisione fino a quando gli fu chiaro che tutto ciò che viene all’esistenza è come un pezzo di ferro incandescente. Le cinque categorie dell’esperienza umana (khanda) sono pezzi di ferro incandescente. Quando del ferro diventa incandescente, si può forse toccarlo senza bruciarsi? C’è una parte di esso che sia fredda? Provate a toccarlo in cima, ai lati o sotto. C’è anche una minima parte fredda? Impossibile. Quel pezzo di ferro arroventato è tutto incandescente. Possiamo attaccarci perfino alla tranquillità. Se ci identifichiamo con quella pace, considerando che c’è qualcuno che è calmo e sereno, ciò rinforza il senso di un sé o anima indipendenti. Questo senso del sé è parte della realtà convenzionale. Pensare: “Sono calmo, sono agitato, sono buono, sono cattivo, sono felice o sono infelice” ci intrappola ulteriormente nell’esistenza e nella rinascita. E’ ulteriore sofferenza. Se la felicità svanisce, allora ci sentiamo infelici. Quando l’angoscia svanisce, siamo di nuovo felici. Presi in questo ciclo infinito, non facciamo che passare continuamente dal paradiso all’inferno.
Prima dell’illuminazione, il Buddha riconobbe che anche il suo cuore seguiva questo modello di comportamento. Seppe così che non erano ancora cessate le condizioni che lo portavano a una continua esistenza e rinascita, quindi il suo compito non era ancora terminato. Concentrandosi sulla condizionalità della vita, la contemplò secondo natura: “A causa di ciò c’è la nascita, a causa della nascita c’è la morte e tutto il movimento di nascita e morte”. Così il Buddha prese a contemplare questi oggetti per poter scoprire la verità sui cinque khanda. Ogni cosa fisica e mentale, ogni cosa concepita e pensata, tutto, senza eccezioni, è condizionato. Una volta compreso ciò, ci insegnò a lasciar andare. Una volta compreso ciò, ci insegnò ad abbandonare tutto. Ci spinse a vedere tutto alla luce di questa verità. Se non lo facciamo, soffriremo. Non saremo in grado di lasciar andare. Ma una volta vista la verità, riconosceremo che queste cose ci ingannano. Come insegnò il Buddha: “La mente non ha sostanza, non è una cosa”.
La mente quando è nata non apparteneva a nessuno. Non muore come qualcosa appartenente a qualcuno. E’ una mente libera, radiosa e splendente, non intrappolata in problemi o discussioni. La ragione per cui sorgono i problemi è che la mente si fa ingannare dalle cose condizionate, da questa percezione ingannevole di un sé. Perciò il Buddha insegnò ad osservare questa mente. All’inizio che cosa c’è? In verità, non c’è proprio nulla. Non sorge con le cose condizionate e non muore con esse. Quando la mente trova qualcosa di bello non cambia per diventare bella. Quando la mente trova qualcosa di brutto non diventa anch’essa brutta. E’ così che avviene quando si ha una chiara percezione diretta della propria natura. C’è la comprensione che tutto è essenzialmente privo di qualsiasi sostanza.
Con tale intuizione profonda il Buddha vide che tutto è impermanente, insoddisfacente e senza un sé. Il Buddha vuole che anche noi comprendiamo la stessa cosa. Allora il “conoscere” conoscerà secondo verità. Pur conoscendo la felicità e l’angoscia, rimarrà impassibile. L’emozione della felicità è una forma di nascita. La tendenza a diventare tristi è una forma di morte. Quando c’è morte, c’è nascita, e quello che nasce deve morire. Tutto ciò che sorge e passa è preso in un’eterna spirale di divenire. Quando la mente del meditatante arriverà a questo stato di comprensione, non si chiederà più se c’è un ulteriore divenire e rinascita. E non ci sarà neanche più il bisogno di chiederlo ad altri.
Il Buddha indagò pienamente i fenomeni condizionati e perciò fu in grado di lasciarli andare. Furono abbandonati i cinque khanda e il conoscere era soltanto un’osservazione imparziale. Se sperimentava qualcosa di positivo, non diventava positivo insieme a quello. Semplicemente osservava e rimaneva vigile e attento. Se sperimentava qualcosa di negativo non diventava negativo. E perché? Perché la sua mente si era liberata da quelle cause e condizioni. Aveva penetrato la Verità. Non esistevano più le condizioni per la rinascita. Questo è un conoscere certo e affidabile. Questa è una mente veramente in pace. Questo è ciò che non nasce, non si ammala, non invecchia e non muore. Non è né causa né effetto, né dipende da causa ed effetto. E’ indipendente dal processo del condizionamento causale. Allora le cause cessano anch’esse senza lasciare condizionamenti residui. Una mente così è oltre la nascita e la morte, sopra e oltre la felicità e il dolore, sopra e oltre il bene e il male. Che dire? E’ al di là delle limitazioni del linguaggio che tenta di descriverla. Tutte le condizioni di sostegno sono cessate e ogni tentativo di descriverla non farebbe che portare all’attaccamento. Allora le parole diventano la teoria della mente.
Le descrizioni teoriche della mente e del suo funzionamento sono precise, ma il Buddha capì che questo tipo di conoscenza era relativamente inutile. Intellettualmente capiamo qualcosa e ci crediamo, ma non è di alcun beneficio. Non porta alla pace della mente. La conoscenza del Buddha porta al lasciar andare. Ha come risultati l’abbandono e la rinuncia. Perché è proprio questa mente che ci trascina a immischiarci in ciò che è giusto e sbagliato. Se siamo saggi ci lasciamo coinvolgere solo in ciò che è giusto. Se siamo sciocchi ci lasciamo coinvolgere da ciò che è sbagliato. Una mente del genere è il mondo, e il Beato, per esaminare le cose di questo mondo, ricorse alle cose di questo mondo. Avendo infine conosciuto il mondo così com’è, fu chiamato: “Colui che comprende chiaramente il mondo”.
Sempre riguardo a samatha e vipassana, la cosa importante è sviluppare questi stati nel proprio cuore. Solo coltivandoli veramente in noi stessi sapremo cosa davvero sono. Possiamo andare a studiare tutto ciò che i libri dicono a proposito dei fattori psicologici della mente, ma questo tipo di conoscenza intellettuale non serve ad eliminare concretamente il desiderio egoistico, la rabbia e l'illusione. Studiamo solo la teoria riguardante il desiderio egoistico, la rabbia e l’illusione, che descrive semplicemente le varie caratteristiche di queste contaminazioni mentali: “Il desiderio egoistico ha questo significato; la rabbia vuol dire ciò; l’illusione si chiama così”.Se conosciamo solo le loro qualità a livello teorico, possiamo parlarne solo a quel livello. Li conosciamo, siamo intelligenti, ma quando questi inquinanti appaiono in pratica nella nostra mente, corrispondono alla teoria o no? Per esempio, quando sperimentiamo qualcosa di sgradevole, reagiamo e diventiamo di cattivo umore? Ci attacchiamo ad esso? Riusciamo a lasciar andare? Se sorge l’avversione e la riconosciamo, continuiamo a rimanerci attaccati? Oppure, nel momento che la vediamo, la lasciamo andare? Se troviamo che vediamo qualcosa che non ci piace e tratteniamo questa avversione nel cuore, sarebbe allora meglio tornare a studiare tutto daccapo. Perché così non va bene. La pratica non è ancora perfetta. Quando raggiunge la perfezione, il lasciar andare avviene semplicemente. Guardatelo sotto questa luce.
Dobbiamo guardare profondamente e veramente nei nostri cuori per poter sperimentare i frutti di questa pratica. Cercare di spiegare la psicologia della mente in termini di infiniti momenti di coscienza separati e delle loro diverse caratteristiche non è, secondo me, un modo di portare avanti la pratica. C’è ben altro da vedere. Se studiamo queste cose, allora conosciamole a livello assoluto, con una comprensione chiara e penetrante. Senza la chiarezza della comprensione intuitiva, come potremmo mai venirne a capo? Non se ne vedrà mai la fine. Non completeremo mai i nostri studi.
Perciò praticare il Dhamma è estremamente importante. E’ così che ho studiato: praticando. Non sapevo niente di momenti-pensiero o fattori psicologici. Osservavo solo la qualità del conoscere. Se sorgeva un pensiero di odio, mi chiedevo il perché. Se sorgeva un pensiero d’amore, mi chiedevo il perché. Questa è la via. Che differenza fa se lo etichettiamo come pensiero o fattore psicologico? Penetrate il più possibile dentro di esso fino a che sarete in grado di risolvere questa sensazione di amore o odio, di farla svanire completamente dal cuore. Quando riuscii a smettere di odiare e amare in ogni circostanza, fui in grado di trascendere la sofferenza. E allora non importa quello che succede, il cuore e la mente sono liberati e in pace. Nulla rimane. Tutto è cessato.
Praticate in questo modo. Se gli altri vogliono parlare della teoria, che lo facciano, sono affari loro. Ma per quanto se ne discuta, al lato pratico tutto si riduce a quest’unico punto. Quando qualcosa nasce, nasce proprio lì. Che sia tanto o poco, nasce sempre lì. Quando cessa, la cessazione avviene lì. E dove altro potrebbe? Il Buddha chiamò questo punto "il conoscere”, e quando questo conoscerà bene le cose così come stanno, in accordo con la verità, allora capiremo il significato della mente. Le cose ci ingannano continuamente. Mentre le studiate, in quel preciso momento, vi ingannano. Come altro potrei esprimermi? Anche se sapete di cosa si tratta, vi ingannano lo stesso, proprio nel punto in cui le conoscete. Questa è la situazione. Il problema è questo: secondo me il Buddha non intendeva che noi conoscessimo soltanto il nome di queste cose. Lo scopo dell’insegnamento del Buddha è trovare il modo di liberarsi di queste cose, scoprendo le cause che le sottendono.
SILA, SAMADHI E PAÑÑA
Ho cominciato a praticare il Dhamma senza saperne molto. Sapevo solo che la via verso la liberazione cominciava con la virtù (sila - sila è un termine usato in vari modi; tra gli altri significati ha anche quello di vivere una vita etica, di seguire i precetti morali, e di controllare il proprio comportamento in modo da non danneggiare gli altri o se stessi. Qui la traduciamo con “virtù”). La virtù è lo splendido inizio del cammino. La profonda pace di samadhi (l'energia mentale focalizzata nella concentrazione meditativa) ne è la parte mediana. La saggezza (pañña) ne è la fine eccelsa. Sebbene nella pratica li possiamo suddividere in tre diversi momenti, man mano che li osserviamo sempre più in profondità, vediamo che queste tre qualità si fondono in un unico elemento. Per sostenere la virtù dobbiamo essere saggi. Alle persone di solito consigliamo di mantenere una base etica, praticando per prima cosa i cinque precetti, in modo che la loro moralità si consolidi. Tuttavia, per perfezionare la virtù ci vuole molta saggezza. Dobbiamo considerare le nostre parole e azioni, e analizzarne le conseguenze. Questo è ciò che fa la saggezza. Dobbiamo contare sulla saggezza per coltivare la virtù.
In teoria la virtù viene per prima, poi viene samadhi e infine la saggezza, ma quando le ho analizzate meglio, ho visto che la saggezza è il fondamento di ogni altro aspetto della pratica. Per comprendere fino in fondo le conseguenze di ciò che diciamo e facciamo – specialmente le conseguenze dannose – abbiamo bisogno che la saggezza sorvegli, guidi e analizzi il meccanismo di causa ed effetto. Ciò purificherà le parole e le azioni. Una volta familiarizzati con i comportamenti etici e non etici, sapremo come metterli in pratica. Abbandoniamo ciò che è male e coltiviamo ciò che è bene. Abbandoniamo ciò che è sbagliato e coltiviamo ciò che è giusto. Questa è la virtù. Man mano che lo facciamo, il cuore diventa sempre più saldo e risoluto. Un cuore saldo e fermo è libero dall’apprensione, dal rimorso e dalla confusione riguardo alle proprie azioni e parole. Questo è samadhi.
Questa salda unificazione della mente costituisce un’altra importante fonte di energia nella nostra pratica di Dhamma, permettendo una contemplazione più profonda degli oggetti, dei suoni, ecc. man mano che li sperimentiamo. Una volta che la mente si è stabilizzata in una ferma e salda consapevolezza ed è in pace, possiamo impegnarci in un'indagine approfondita della realtà di corpo, sensazioni, percezioni, pensieri, coscienza, oggetti visibili, suoni, odori, gusti, sensazioni fisiche e oggetti mentali. Siccome tutte queste cose sorgono in continuazione, noi li indaghiamo in continuazione con la sincera determinazione di non perdere la consapevolezza. Sapremo così cosa sono veramente queste cose. Sorgono seguendo una loro verità naturale. Man mano che la comprensione aumenta, nasce la saggezza. Una volta che c’è la chiara comprensione di come stanno veramente le cose, il nostro vecchio modo di percepire viene sradicato e la conoscenza intellettuale si trasforma in saggezza. E’ così che la virtù, la concentrazione e la saggezza si fondono e funzionano all’unisono.
Man mano che la saggezza cresce, impavida e forte, il samadhi a sua volta diventa sempre più saldo. Più il samadhi è saldo, più la virtù diventa incrollabile e totale. La perfezione della virtù alimenta il samadhi e l’aumento di vigore del samadhi conduce alla maturazione della saggezza. Questi tre aspetti della pratica convergono e si intersecano. Uniti, formano l’Ottuplice Nobile Sentiero, la via del Buddha. Quando la virtù, il samadhi e la saggezza raggiungono il loro culmine, questo Sentiero ha il potere di sradicare ciò che inquina la purezza della mente (kilesa - contaminazioni; qualità mentali che contaminano, inquinano, macchiano il cuore: desiderio egoistico o sensuale, rabbia, illusione, e qualunque stato mentale basato su di essi). Quando sorge il desiderio sensuale, quando la rabbia e l’ignoranza mostrano la faccia, solo il Sentiero è in grado di eliminarne ogni traccia.
La pratica di Dhamma si svolge nel contesto delle Quattro Nobili Verità: sofferenza (dukkha), origine della sofferenza (samudaya), cessazione della sofferenza (nirodha) e il Sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza (magga). Questo Sentiero consiste di virtù, samadhi e saggezza, che sono il contesto entro il quale si addestra il cuore. Il loro vero significato non lo si trova nelle parole, ma giace profondo nel nostro cuore. E’ così che sono virtù, samadhi e saggezza. Si alternano continuamente. Il Nobile Ottuplice Sentiero comprende tutto ciò che sorge: ogni cosa visibile, suono, odore, gusto, sensazione fisica o oggetto mentale. Tuttavia, se i fattori dell’Ottuplice Nobile Sentiero sono deboli e incerti, le contaminazioni si impadroniranno della mente. Se invece il Nobile Sentiero è forte e coraggioso, vincerà e distruggerà le contaminazioni inquinanti. Se gli inquinanti sono coraggiosi e potenti mentre il Sentiero è debole e fragile, questi conquisteranno il Sentiero. Conquisteranno il nostro cuore. Se la conoscenza non è abbastanza veloce e pronta nel momento in cui sperimentiamo le forme, le sensazioni, le percezioni, i pensieri, essi si impossesseranno di noi e ci devasteranno. Il Sentiero e gli inquinanti procedono insieme. Man mano che nel cuore si sviluppa la pratica del Dhamma, queste due forze devono contendersi ogni passo della via. E’ come se all’interno della mente ci fossero due persone che discutono, ma in effetti sono il Sentiero del Dhamma e gli inquinanti che si sfidano per conquistare il dominio sul cuore. Il Sentiero alimenta e guida la nostra capacità di contemplazione. Finché siamo in grado di contemplare correttamente, gli inquinanti perderanno terreno. Ma se tentenniamo, lasciando che le contaminazioni si raggruppino e riprendano forza, il Sentiero sarà sbaragliato mentre gli inquinanti riprenderanno il dominio. Le due parti continueranno a combattersi fino a quando non ci sarà un vincitore e la partita sarà conclusa.
Se concentriamo i nostri sforzi per sviluppare la via del Dhamma, gli inquinanti verranno gradualmente e costantemente sradicati. Una volta perfettamente coltivate, le Quattro Nobili Verità prenderanno dimora nel nostro cuore. Sotto qualsiasi forma la sofferenza si presenti, ha sempre la sua causa. Questa è la Seconda Nobile Verità. E quale è la causa? Virtù debole. Samadhi debole. Saggezza debole. Quando il Sentiero non è stabile, le contaminazioni dominano la mente. E quando esse dominano, allora entra in gioco la Seconda Nobile Verità, che genera ogni sorta di sofferenza. Una volta che soffriamo, scompaiono quelle qualità che sarebbero in grado di smorzare la sofferenza. Le condizioni che fanno sorgere il Sentiero sono virtù, samadhi e saggezza. Quando hanno raggiunto la loro piena maturità, il Sentiero del Dhamma non si ferma più e avanza incessantemente per superare l’attaccamento e la bramosia che ci riempiono di tanta angoscia. La sofferenza non può sorgere, perché il Sentiero sta distruggendo gli inquinanti. E’ a questo punto che avviene la cessazione della sofferenza. Perché il Sentiero è in grado di portare alla cessazione della sofferenza? Perché virtù, samadhi e saggezza hanno raggiunto la perfezione e il Sentiero ha preso un avvio irrefrenabile. Tutto converge qui. Chi pratica così, secondo me, non ha alcun bisogno di teorie sulla mente. Se la mente se ne libera, allora diventa completamente sicura e certa. Ora, qualsiasi cammino intraprenda, non dobbiamo pungolarla troppo perché mantenga la giusta direzione.
Consideriamo le foglie di un albero di mango. Come sono? Basta esaminare una singola foglia per saperlo. Anche se ce ne sono diecimila sappiamo come sono tutte le altre soltanto guardandone una. Sono sostanzialmente le stesse. Altrettanto si può dire per il tronco. Basta osservare il tronco di un solo albero di mango per sapere le caratteristiche di tutti gli altri alberi di mango. Osservatene uno solo. Tutti gli altri alberi di mango non sono sostanzialmente diversi. Anche se ce ne fossero centomila, quando ne conoscete uno, li conoscete tutti. Questo è ciò che il Buddha ha insegnato.
Virtù, samadhi e saggezza costituiscono il Sentiero del Buddha. Ma la via non è l’essenza del Dhamma. Il Sentiero non è fine a se stesso, non è il traguardo ultimo indicato dal Beato. E' la strada che vi conduce verso la meta. E’ come la strada che avete percorso per venire da Bangkok a questo Monastero, Wat Nong Pah Pong. Il vostro traguardo non era la strada, ma il monastero e avevate bisogno della strada per il viaggio. La strada su cui avete viaggiato non è il monastero. E’ solo un modo per arrivarci. Ma se volete arrivare al monastero dovete seguire la strada. E’ la stessa cosa per virtù, samadhi e saggezza. Possiamo dire che non sono l’essenza del Dhamma, ma che sono la strada per arrivarci. Quando si è completamente padroni di virtù, samadhi e saggezza, il risultato è una profonda pace della mente. Questa è la destinazione. Quando siamo arrivati a questa pace, anche se sentiamo un rumore, la mente rimane tranquilla. Una volta raggiunta questa pace, non c'è altro da fare. Il Buddha ha insegnato a lasciar andare tutto. Qualsiasi cosa succeda, non c’è niente di cui preoccuparsi. E' allora che conosceremo da noi stessi, veramente, incontestabilmente, e non ci limiteremo più a credere a ciò che gli altri ci dicono.
Il principio essenziale del Buddhismo è vuoto di ogni fenomeno. Non dipende da miracolosi poteri psichici, capacità paranormali o altre cose strane o mistiche. Il Buddha non dette importanza a queste cose. Questi poteri esistono ed è possibile svilupparli, ma questa parte del Dhamma è ingannevole, e per tale motivo il Buddha non le dette importanza e non la incoraggiò. Egli lodò soltanto coloro che erano stati in grado di liberarsi dalla sofferenza.
Tuttavia ci vuole esercizio; gli strumenti e l’attrezzatura per compiere il lavoro sono generosità, virtù, samadhi e saggezza. Dobbiamo usarli per esercitarci bene. Combinati formano il Sentiero che porta verso l’interiorità, e la saggezza è il primo passo. Questo Sentiero non può progredire se la mente è incrostata di contaminazioni, ma se siamo intrepidi e forti, il Sentiero eliminerà queste impurità. Però se sono gli inquinanti ad essere intrepidi e forti distruggeranno il Sentiero. La pratica del Dhamma semplicemente implica una incessante battaglia tra queste due forze, fino a che si raggiungerà la fine del cammino. Esse sono impegnate in una strenua lotta fino alla fine.
I PERICOLI DELL’ATTACCAMENTO
Usare gli strumenti della pratica comporta fatica e sfide difficili. Dobbiamo contare sulla pazienza, la tolleranza e la rinuncia. Dobbiamo fare tutto da soli, sperimentare da soli, realizzare da soli. Quelli che hanno studiato molto, tuttavia, tendono a fare un sacco di confusione. Per esempio quando si siedono in meditazione, non appena la mente sperimenta un pochino di tranquillità, subito cominciano a pensare: “Ehi, questo deve essere il primo jhana!” (jhana: profonda unificazione della mente in meditazione. La vetta del samadhi. Il Buddha ne ha insegnato otto livelli). E’ così che lavora la loro mente. Ma questi pensieri, quando sorgono, rovinano quella tranquillità appena sorta. Poi passano a pensare che hanno raggiunto il secondo jhana. Non pensate e non speculate su tutto. Non ci sono manifesti che annunciano il livello di samadhi che state sperimentando. La realtà è completamente diversa. Non ci sono segnalazioni come i cartelli stradali che vi indicano “questa strada va verso Wat Nong Pah Pong”. Non è così che io vedo la mente. Non fa proclami.
Sebbene un certo numero di esimi sapienti abbia dato la descrizione del primo, secondo, terzo e quarto jhana, ciò che è scritto non è altro che pura informazione esteriore. Se veramente la mente entra in questi profondi stati di pace, non sa niente di queste descrizioni. Sa, ma ciò che sa non ha niente a che fare con la teoria che studiamo. Se i dotti si tengono stretti alle loro teorie e le trasferiscono nella loro meditazione, sedendo e pensando: “Hmm... che sarà questo? E’ già il primo jhana?” ecco, la pace è finita e non sperimenteranno più niente che abbia un vero valore. E perché? Perché c’è desiderio, e una volta che c’è attaccamento cosa succede? La mente esce immediatamente dallo stato meditativo. Perciò è importante che abbandoniamo completamente ogni forma di pensiero e di speculazione. Bisogna lasciarli completamente andare. Considerate solo il corpo, la parola e la mente e scavate a fondo nella pratica. Osservate il lavorìo della mente, ma non trascinatevi dentro anche i libri di Dhamma. Altrimenti diventa tutto una gran confusione, perché niente in quei libri corrisponde esattamente alla realtà delle cose così come sono.
La gente che studia molto, che è piena di conoscenze teoriche, generalmente non riesce bene nella pratica di Dhamma. Si impantana al livello della pura informazione. La verità è che il cuore e la mente non possono essere misurati su parametri esterni. Se la mente diventa tranquilla, lasciatela semplicemente essere tranquilla. Esistono dei livelli di pace molto profondi. Personalmente io non ne so molto di teoria. Ero monaco già da tre anni, ma continuavo a chiedermi cosa fosse veramente il samadhi. Cercavo di pensarci e di raffigurarmelo durante la meditazione, ma la mente diventava sempre più agitata e distratta, ancora più di quanto lo fosse prima. Anzi, aumentò pure il numero dei pensieri. Quando non meditavo stavo più calmo. Ragazzi, era veramente difficile, esasperante! Ma, sebbene incontrassi tanti ostacoli, non gettai mai la spugna. Semplicemente continuai. Quando non cercavo di fare qualcosa in particolare, la mente era relativamente a suo agio. Ma ogni volta che decidevo di concentrare la mente in samadhi, ne perdevo completamente il controllo. Mi chiedevo: “Ma che capita? Perché succede questo?”.
Più tardi cominciai a capire che la meditazione è paragonabile al processo del respiro. Se decidiamo di intervenire sul respiro, rendendolo leggero, profondo o solo ‘giusto’, vedremo che è difficile perfino respirare. Tuttavia se ce ne andiamo a fare una passeggiata e neppure siamo consapevoli dell’inspirazione ed espirazione, è una cosa rilassante. Perciò riflettei: “Ah, Forse è così che funziona! Quando, durante il giorno, ci si muove nelle faccende normali senza concentrare l’attenzione sul respiro, il respiro causa sofferenza? No, ci si sente semplicemente rilassati". Ma se io mi sedevo e prendevo la forte determinazione di rendere la mente tranquilla, contemporaneamente davo spazio all’attaccamento e all’avidità. Quando cercavo di controllare il respiro per farlo diventare leggero o profondo, semplicemente mettevo in moto più stress di quanto ne avessi prima. Perché? Perché la forza di volontà che stavo usando era macchiata di attaccamento e avidità. Non sapevo ciò che stava capitando. Tutta quella frustrazione e fatica erano causate dal fatto che portavo nella meditazione l’attaccamento.
UNA PACE INCROLLABILE
Una volta stavo in un monastero della foresta distante poco meno di un chilometro da un villaggio. Una sera, sul tardi, i paesani festeggiavano e stavano facendo molto chiasso, mentre io praticavo la meditazione camminata. Dovevano essere circa le 11 di sera e mi sentivo un po’ strano. Già da mezzogiorno avevo questa strana sensazione. La mente era quieta, quasi senza pensieri. Mi sentivo rilassato e completamente a mio agio. Continuai a fare meditazione camminata fino a che mi sentii stanco; allora andai a sedermi nella capanna con il tetto di paglia. Mi stavo sedendo, quando in modo sorprendente, senza neppure avere il tempo di incrociare le gambe, la mia mente sentì il bisogno di immergersi in uno stato di profonda pace. Tutto avvenne per conto suo. Appena seduto, la mente divenne completamente tranquilla. Era solida come una roccia. Non è che non sentissi i canti e la musica dei paesani, potevo sentirli, ma potevo anche completamente chiudere fuori la percezione del suono.
Era strano. Se non facevo attenzione al suono, c’era una pace perfetta, non sentivo niente. Ma se volevo sentire, lo potevo fare e non mi disturbava affatto. Era come se nella mia mente ci fossero due oggetti vicini, che però non si toccavano. Potevo constatare che la mente e il suo oggetto di consapevolezza erano separati e distinti, proprio come questa sputacchiera e quel bricco dell’acqua. Poi compresi: quando la mente è in samadhi, se dirigete l’attenzione verso l’esterno potete udire i suoni, ma se la lasciate dimorare nella sua vacuità, allora è perfettamente silenziosa. Quando il suono veniva percepito potevo vedere che il conoscere e il suono erano completamente diversi. Riflettei: “Se non fosse così com’è, in che altro modo potrebbe essere?” E' così che era. Le due cose erano completamente separate. Continuai a indagare in questo modo fino a che la mia comprensione si approfondì ancora di più: “Ah, questo è importante. Quando si interrompe l’apparente continuità dei fenomeni, vi è solo pace”. La precedente illusione di continuità (santati) si era trasformata in pace mentale (santi). Così continuai a meditare, mettendoci un grande sforzo. In quel momento la mente era concentrata solo sulla meditazione, indifferente a tutto il resto. Se a quel punto avessi smesso di meditare, sarebbe stato solo perché l’avevo completata. Potevo prendermela con calma, ma non per pigrizia, stanchezza o noia. Niente affatto. Tutto ciò era assente dal cuore. C’era solo un equilibrio interiore perfetto, proprio quello giusto.
Infine feci una pausa, ma fu solo la postura esterna che cambiò. Il cuore rimase fermo, immobile, infaticabile. Avevo l’intenzione di riposare, per cui presi un cuscino. Mentre mi piegavo, la mente rimase calma come prima. Poi, proprio mentre la testa toccava il cuscino, la consapevolezza della mente cominciò a fluire verso l’interno; non sapevo dove andasse, continuava a scorrere sempre più in profondità. Era come una corrente elettrica che passava attraverso un cavo fino all’interruttore. Quando raggiunse l’interruttore, il corpo esplose con un boato assordante. Durante tutto ciò la conoscenza era perfettamente lucida e sottile. Una volta passato quel punto, la mente fu libera di penetrare profondamente dentro. Arrivò fino a un punto in cui non c’era assolutamente niente. Nessuna cosa del mondo esteriore avrebbe potuto penetrare qui. Niente avrebbe potuto raggiungerlo. Rimasi un po’ così dentro, poi la mente si ritirò, per scorrere di nuovo fuori. Quando però dico che si ritirò non intendo dire che la feci defluire. Io ero soltanto un osservatore, un testimone, che conosceva. La mente uscì sempre di più fino a che ritornò “normale”.
Appena ripresi il mio solito stato di coscienza, mi domandai: “Cosa è successo?!”. Subito giunse la risposta, “Queste cose avvengono per i fatti loro. Non devi cercare alcuna spiegazione”. La mente rimase soddisfatta di questa risposta.
Dopo un po’ la mente ricominciò a fluire di nuovo verso l’interno. Non facevo nessuno sforzo cosciente per dirigere la mente. Fece tutto da sola. Mentre si muoveva sempre più profondamente all’interno, ad un tratto toccò di nuovo quell’interruttore. Questa volta il mio corpo esplose in un’infinità di minuscole particelle. Di nuovo la mente fu libera di penetrare profondamente dentro se stessa. Silenzio assoluto. Era andata ancora più in profondità di prima. Assolutamente nessuna cosa esterna poteva raggiungerla. La mente rimase lì per un po’, per il tempo che volle, e poi si ritirò e rifluì fuori. Seguiva un suo impulso e tutto avveniva da sé. Io non influenzavo né dirigevo la mente in alcun modo, non la facevo fluire dentro né la ritraevo fuori. Io conoscevo e guardavo soltanto.
Di nuovo la mente ritornò al suo normale stato di coscienza, e io non mi chiesi né pensai a ciò che era accaduto. Mentre meditavo, una volta ancora la mente si volse verso l’interno. Questa volta l’intero cosmo esplose e si disintegrò in minutissime particelle. La terra, il suolo, le montagne, i campi e le foreste – tutto il mondo – si disintegrò nell’elemento spazio. La gente era sparita. Tutto era sparito. Questa terza volta non rimase assolutamente nulla.
La mente, rivolta all’interno, rimase lì per quanto tempo volle. Non posso dire che capisco esattamente in che modo vi rimase. E’ difficile descrivere ciò che accadde. Non vi sono termini di paragone a cui riferirmi. Nessuna similitudine è calzante. Questa volta la mente rimase all’interno per un tempo molto più lungo che dianzi, e venne fuori da quello stato dopo un bel po’. Quando dissi che ne uscì, non intendo dire che la feci uscire io o che stavo controllando ciò che avveniva. La mente fece tutto da sola. Io ero soltanto un osservatore. Alla fine ritornò nuovamente al suo stato di coscienza normale. Come descrivere ciò che avvenne per tre volte? Chi può saperlo? Che termini si potrebbero usare per descriverlo?
IL POTERE DI SAMADHI
Tutto ciò che vi ho detto finora riguarda la mente, che segue la via della natura. Non è stata una descrizione teorica della mente o di stati psicologici. Non ce n’era bisogno. Se c’è fede o fiducia, ci arrivate e lo fate veramente. Non giocherellate soltanto, anzi mettete in gioco la vostra stessa vita. E quando la pratica raggiunge lo stadio che ho appena descritto, il mondo intero è completamente a soqquadro. Dopo, la comprensione della realtà è completamente diversa. La visione delle cose è completamente trasformata. Se qualcuno vi vedesse in quel momento, penserebbe che siete impazzito. Se un’esperienza simile avvenisse a uno che non sa dominarsi, potrebbe diventare veramente matto, perché niente è più come prima. La gente sembra diversa da prima; ma solo voi la vedete così. Tutto, assolutamente tutto cambia. I pensieri sono trasformati: gli altri la pensano in un modo, voi in un altro. Loro parlano delle cose in un certo modo, voi in un altro. Loro scendono lungo un sentiero, voi salite per un’altra via. Non siete più come gli altri esseri umani. Questo modo di vedere le cose non diminuisce, anzi persiste e va avanti. Provateci. Se è veramente nel modo in cui l’ho descritto, non dovete cercare molto lontano. Guardate all’interno del vostro cuore. Questo cuore è fedele, coraggioso, incrollabile, audace. Questo è il potere del cuore, la sua fonte di forza e di energia. Il cuore ha questa forza potenziale. Questo è il potere e la forza di samadhi.
A questo punto è sempre e solo il potere e la purezza che la mente attinge dal samadhi. Questo livello di samadhi, è un samadhi al suo culmine. La mente ha raggiunto la vetta del samadhi; non è solo una semplice concentrazione momentanea. Se in quel momento passaste alla meditazione vipassana, la contemplazione sarebbe ininterrotta e porterebbe a profonde intuizioni. Oppure potreste usare quell’energia concentrata in altri modi. Da questo punto in poi si possono sviluppare poteri psichici, compiere miracoli o si può usarla in qualsiasi altro modo. Gli asceti e gli eremiti hanno usato l’energia di samadhi per rendere santa l’acqua, fare talismani o incantesimi. Sono tutte cose possibili a questo stadio, e a modo loro possono essere benefiche; ma è come il beneficio dell’alcool. Lo bevete e vi ubriacate.
Questo livello di samadhi è un punto di arrivo. Il Buddha si fermò lì e si riposò. E’ la base per la vipassana e la contemplazione. Tuttavia non c’è bisogno di un samadhi così profondo per osservare le condizioni che ci circondano; perciò continuate diligentemente a contemplare il processo di causa ed effetto. Per farlo concentriamo la pace e la chiarezza della mente sull’analisi delle cose visibili, dei suoni, degli odori, dei sapori, delle sensazioni fisiche, dei pensieri e degli stati mentali che sperimentiamo. Esaminate gli stati d’animo e le emozioni, sia positive che negative, sia piacevoli che sgradevoli. Esaminate tutto. E’ come se qualcuno, salito su un albero di manghi ne scuotesse i frutti facendoli cadere, mentre noi da sotto li raccogliamo. Quelli marci, non li raccogliamo. Raccogliamo solo quelli sani. Non è stancante, perché non siamo noi che saliamo sull’albero. Noi ci limitiamo a raccogliere i frutti stando sotto l’albero.
Capite il significato di questa similitudine? Tutto ciò che viene sperimentato da una mente pacificata porta ad una comprensione più vasta. Non si creano più concettualizzazioni e proliferazioni su ciò che viene sperimentato. Ricchezza, fama, biasimo, lode, felicità e infelicità vengono da sé. E noi stiamo in pace. Siamo saggi. Anzi è addirittura divertente. E’ divertente rovistare in mezzo a tutto questo e metterlo in ordine. Ciò che la gente chiama bene, male, cattivo, qui, lì, felicità, infelicità, tutto va raccolto insieme e usato a nostro beneficio. Qualcun altro è salito sull’albero di mango e sta scuotendo i rami per farne cadere i frutti verso di noi. Noi semplicemente ci divertiamo a coglierli senza paura. E comunque di cosa dovremmo aver paura? E’ qualcun altro che sta in cima all’albero e scuote per noi. Ricchezza, fama, lode, critiche, felicità, infelicità e tutto il resto non sono che manghi che cadono a terra, e noi li esaminiamo con cuore sereno. E allora sapremo quali sono quelli buoni e quelli marci.
LAVORARE IN ARMONIA CON LA NATURA
Quando cominciamo a usare la pace e la serenità che abbiamo sviluppato durante la meditazione per contemplare queste cose, allora sorge la saggezza. Questo è ciò che chiamo saggezza. Questo è vipassana. Non è qualcosa di inventato e costruito. Se siamo saggi, vipassana si svilupperà naturalmente. Non c’è bisogno di etichettare ciò che accade. Se c’è solo un piccolo lampo di comprensione intuitiva, la chiamiamo “piccola vipassana”. Quando la visione si chiarisce un po’ di più, la chiamiamo “media vipassana”. Se la conoscenza è completamente in armonia con la Verità, la chiamiamo la “vipassana ultima”. Personalmente preferisco usare la parola saggezza (pañña) invece di vipassana. Se pensiamo di andarci a sedere ogni tanto e praticare la “meditazione vipassana”, avremo parecchie difficoltà. La comprensione deve nascere dalla pace e dalla tranquillità. Tutto il processo si svolgerà naturalmente, da solo. Non possiamo forzarlo.
Il Buddha ci ha insegnato che questo processo matura secondo un suo ritmo. Quando abbiamo raggiunto questo livello di pratica, lasciamo che si sviluppi a seconda delle nostre capacità innate, delle attitudini spirituali e dei meriti che abbiamo accumulato nel passato. Però non smettiamo mai di applicarci con impegno nella pratica, anche se il progresso, lento o veloce, è comunque fuori dal nostro controllo. E’ come piantare un albero. L’albero sa a che velocità deve crescere. Se vogliamo che cresca più velocemente di quanto non faccia, è una pura illusione. Se vogliamo che cresca più lentamente, riconosciamo che anche questa è un’illusione. Una volta fatto il lavoro, il risultato verrà da sé, proprio come quando si pianta un albero. Per esempio, mettiamo che vogliamo piantare una pianticella di peperoncino. Il nostro compito è di scavare un buco, piantare il virgulto, annaffiarlo, concimarlo e proteggerlo dagli insetti. Questo è il nostro lavoro, la parte che dobbiamo fare noi. E’ a questo punto che interviene la fede. Che la pianta di peperoncino cresca o no non dipende da noi. Non è affar nostro. Non possiamo tirare la pianta, strattonarla in modo che cresca più in fretta. Non è così che lavora la natura. Il nostro compito è di innaffiarla e concimarla. Praticare il Dhamma in questo modo rende pacifici i nostri cuori.
Se realizziamo l’Illuminazione durante questa vita, bene. Se dobbiamo attendere la prossima, non fa niente. Abbiamo fede e un'incrollabile fiducia nel Dhamma. Il fatto di progredire velocemente o lentamente dipende dalle nostre capacità innate, dalle attitudini spirituali e dai meriti accumulati. Praticare così rende tranquillo il cuore. E’ come se guidassimo un carro a cavalli. Non mettiamo il carro davanti ai cavalli. O è come arare una risaia, stando davanti e non dietro al bufalo che tira l’aratro. Ciò che voglio dire è che la mente si proietta oltre se stessa. Diventa impaziente di avere risultati veloci. Non è questo il modo di fare. Non camminate davanti al bufalo. Dovete camminare dietro al bufalo.
E’ come quella pianta di peperoncino che facciamo crescere. Datele acqua e concime e sarà lei stessa a fare il lavoro di assorbirli. Quando le termiti e le formiche vengono a infestarla, le cacciamo. Basta questo affinché la pianta cresca bella con le sue proprie forze, e una volta che cresce bene, non forzatela a produrre fiori perché riteniamo che sia il tempo della fioritura. Non è affar nostro. Creerà solo inutili disagi. Lasciatela fiorire a tempo debito. E appena i fiori sbocciano, non aspettatevi che subito portino frutti. Non basatevi sulla coercizione. E’ una causa di sofferenza! Quando capiamo tutto questo, capiamo anche quali sono, o non sono, le nostre responsabilità. Ognuno ha il proprio compito da adempiere. La mente sa quale è il suo ruolo nel lavoro che va fatto. Se la mente non capisce il suo ruolo, cercherà di forzare la pianticella a produrre peperoncini lo stesso giorno che la piantiamo. La mente insisterà perché cresca, fiorisca e produca i frutti tutto in un sol giorno.
Questa non è altro che la Seconda Nobile Verità: l’attaccamento causa la sofferenza. Se siamo consci di questa Verità e la contempliamo, capiremo che cercare di forzare i risultati della nostra pratica di Dhamma è una pura illusione. E’ sbagliato. Capendone il funzionamento, saremo in grado di lasciar andare e di permettere alle cose di maturare a seconda delle nostre capacità innate, delle attitudini spirituali che possediamo e dei meriti che abbiamo accumulato. Noi continuiamo a fare la nostra parte. Non preoccupatevi che ci voglia troppo tempo. Anche se ci volessero centinaia o migliaia di vite per realizzare l’Illuminazione, e allora? Per quante vite ci vorranno, noi continueremo a praticare con cuore sereno, a nostro agio, al nostro ritmo. Una volta che la mente è "entrata nella corrente", non c’è più niente da temere. Vuol dire che non esiste nemmeno la possibilità che venga compiuta la più piccola azione cattiva. Il Buddha ha detto che la mente di un sotapanna – uno che ha ottenuto il primo grado di illuminazione - è entrata nella corrente del Dhamma che fluisce verso l’illuminazione. Un sotapanna non dovrà più sperimentare gli stati più miseri di esistenza, non cadrà più nell’inferno. E come potrebbe infatti cadere nell’inferno quando ormai la mente ha abbandonato il male? Ha visto il pericolo di produrre un kamma cattivo. Anche se cercate di forzarlo a fare o a dire qualcosa di cattivo, ne sarebbe incapace, ed è per questo che non corre più il pericolo di cadere nell’inferno o negli stati di esistenza più bassi. La sua mente fluisce nella corrente del Dhamma.
Una volta che siete nella corrente, sapete quali sono le vostre responsabilità. Capite che lavoro va fatto. Sapete come praticare il Dhamma. Sapete quando metterci sforzo e quando rilassarvi. Comprendete la mente e il corpo, i processi fisici e mentali, e rinunciate alle cose che vanno lasciate andare, abbandonandole in continuazione senza la minima ombra di dubbio.
CAMBIARE LA PROPRIA VISIONE
Nella mia pratica di Dhamma non ho mai tentato di padroneggiare una vasta gamma di cose. Anzi, ho puntato solo ad una. Ho raffinato questo cuore. Mettiamo che stiamo osservando un corpo. Se troviamo che siamo attratti da un corpo, allora analizziamolo. Osservatelo bene: capelli, peli, unghie, denti e pelle (Kesa, Loma, Naka, Danta, Taco: la contemplazione di queste cinque parti del corpo costituisce la prima tecnica meditativa assegnata dal maestro al nuovo monaco o monaca). Il Buddha ci ha insegnato a contemplare accuratamente e ripetutamente queste parti del corpo. Visualizzatele separatamente, dividetele, toglietene la pelle e inceneritele. Questo va fatto. Rimanete con questa meditazione fino a che si consolida fermamente, senza alcuna indecisione. Guardate tutti allo stesso modo. Per esempio, quando la mattina i monaci e i novizi vanno al villaggio per l’elemosina, chiunque vedano, sia un altro monaco o un altra persona, cerchino di immaginare lui o lei come un corpo morto, un cadavere ambulante che cammina sulla strada davanti a loro. Rimanete concentrati su questa percezione. E’ così che si incrementa lo sforzo. E questo porta alla maturità e allo sviluppo. Quando vedete una giovane donna che vi attrae, immaginatela come un cadavere ambulante, con il corpo putrefatto, esalante puzza di decomposizione. Vedete tutti sotto questa luce. E non fateli avvicinare troppo! Non permettete all’infatuazione di prendere piede nel vostro cuore. Se li percepite putridi e puzzolenti, vi assicuro che l’infatuazione non continuerà. Contemplate fino ad essere sicuri di quello che vedete, fino a che la visione non sia chiara, fino a che non ne diventiate esperti. Per qualsiasi via poi vi incamminate, non andrete più fuori strada. Metteteci tutto il cuore. Ogni volta che vedete qualcuno, sarà come vedere un cadavere. Sia maschio che femmina, guardatene il corpo come se fosse morto. E non dimenticate di vedere il vostro come morto. In fondo è tutto quello che rimarrà di essi. Cercate di sviluppare questo modo di vedere il più completamente possibile. Esercitatevi finché diventa sempre più parte della vostra mente. Vi assicuro che, al lato pratico, è un gran divertimento. Ma se vi affannate a leggerlo nei libri, incontrerete serie difficoltà. Dovete farlo. E fatelo con assoluta sincerità. Fatelo fino a che questa meditazione non diventa parte di voi. Fate della realizzazione della Verità il vostro scopo. Se siete motivati dal desiderio di trascendere la sofferenza, allora sarete sul sentiero giusto.
In questi tempi ci sono molti insegnanti di vipassana e una vasta gamma di tecniche. Vi dirò solo: fare vipassana non è facile. Non possiamo semplicemente saltarci dentro. Non funzionerà se non si parte da un alto livello di moralità. Scopritelo voi stessi. La disciplina morale e i precetti sono necessari, perché se il nostro comportamento, le nostre azioni e la nostra parola non sono impeccabili, non riusciremo mai a star ritti sulle nostre due gambe. La meditazione senza moralità è come cercare di evitare una parte importante del Sentiero. Allo stesso modo, certe volte sentiamo dire: “Non c’è bisogno di sviluppare la tranquillità; lasciala perdere e passa direttamente alla meditazione vipassana”. A dire cose di questo tipo sono quegli individui superficiali, che cercano sempre scappatoie. Dicono che non bisogna preoccuparsi della disciplina morale. Non è un giochetto sostenere e raffinare la propria virtù, anzi è una sfida. Se potessimo tralasciare tutti gli insegnamenti sul comportamento morale, sarebbe tutto più facile, vero? Ogni volta che incontriamo una difficoltà non faremmo altro che evitarla, saltandola a pié pari. Naturalmente tutti vorremmo poter evitare le difficoltà.
Una volta incontrai un monaco che mi disse che lui era un vero meditante. Mi chiese il permesso di stare con noi e si informò sul programma e sul livello di disciplina monastica. Gli spiegai che in questo monastero vivevamo secondo il Vinaya, il codice di disciplina monastica del Buddha, e che se voleva venire a stare qui doveva rinunciare al suo denaro personale e al rifornimento personale di cibo. Mi disse che la sua pratica era “non attaccamento a tutte le convenzioni”. Gli risposi che non capivo di cosa stesse parlando. “E se io stessi qui, tenendo il denaro ma senza attaccarmi ad esso? Il denaro è solo una convenzione.” Gli dissi che certo, non c’era problema. “Se puoi mangiare il sale e non trovarlo salato, allora puoi usare il denaro senza attaccarti ad esso”. Stava dicendo cose senza senso. In effetti era troppo pigro per seguire tutti i dettagli del Vinaya. Ve lo ripeto, è difficile. “Quando puoi mangiare il sale e onestamente assicurarmi che non è salato, allora ti prenderò sul serio. E se mi dici che non è salato allora te ne darò un sacco intero da mangiare. Provaci soltanto. Veramente non avrà il gusto di sale? Il non attaccamento alle convenzioni non è soltanto questione di essere abili con le parole. Se parli così, non puoi stare con me”. Allora se ne andò.
Dobbiamo cercare di praticare e mantenere la virtù. I monaci devono esercitarsi con le pratiche ascetiche (Dhutanga: pratiche ascetiche raccomandate dal Buddha come un “mezzo per scuotersi di dosso le contaminazioni”. Comprendono 13 strette osservanze che aiutano a coltivare il senso di accontentarsi, di rinuncia e di sforzo energico), mentre la gente a casa dovrebbe praticare i cinque precetti (Cinque precetti: le cinque linee guida basilari per esercitarsi a compiere solo azioni virtuose del corpo e della parola: astenersi dall’uccidere, astenersi dal rubare, avere una condotta sessuale responsabile, astenersi dal mentire, seminare discordia e dalla parola dura o frivola, astenersi dall’assumere intossicanti). Bisogna tentare di essere impeccabili in tutto ciò che si dice e si fa. Bisogna coltivare la bontà con tutte le nostre forze, e continuare a rinforzarla man mano.
Quando cominciate a coltivare la serenità di samatha, non commettete l’errore di provarci una volta o due e poi di rinunciarci perché trovate che la mente non si tranquillizza. Non è il modo giusto di fare. Dobbiamo coltivare la meditazione per un lungo periodo di tempo. Perché dobbiamo metterci tanto? Provate a pensarci. Per quanti anni abbiamo permesso alla mente di vagare dappertutto? Per quanti anni non abbiamo praticato la meditazione samatha? Ogni volta che la mente ci imponeva di seguirla su una certa via, noi ci precipitavamo dietro di essa. Per calmare questa mente vagante, per fermarla, per pacificarla, non basteranno un paio di mesi di meditazione. Considerate questo punto.
Quando cominciate ad esercitare la mente affinché sia in pace in ogni situazione, dovete capire che all’inizio, quando sorge un’emozione inquinante, la mente non sarà affatto in pace. Sarà distratta e fuori controllo. Perché? Perché c’è attaccamento. Non vogliamo che la mente pensi. Non vogliamo sperimentare nessuna disattenzione o emozione. Non volere equivale ad attaccamento, attaccamento per la non esistenza. Più vogliamo non sperimentare certe cose, più le invitiamo e le facciamo entrare in noi. “Non voglio queste cose e allora perché continuano a venire da me? Non voglio che vada in questo modo e allora perché va in questo modo?”. Eccoci al punto! Vogliamo che le cose vadano in un certo modo, perché non capiamo la nostra stessa mente. Non ci vuole un’eternità per capire che baloccarsi con queste cose è un errore. Infine quando consideriamo bene la cosa, ci arriviamo: “Oh, queste cose vengono perché sono io a farle venire!”.
Volere non sperimentare qualcosa, volere stare in pace, volere non essere distratti o agitati, tutto ciò è attaccamento. E’ una palla di ferro incandescente. Ma non fa niente. Continuate con la pratica. Ogni volta che sperimentate uno stato d’animo o un’emozione esaminateli nei termini delle loro qualità di impermanenza, insoddisfazione e non sé e cacciateli in una di queste tre categorie. Poi riflettete e indagate: queste emozioni inquinanti sono quasi sempre accompagnate da un’eccessiva quantità di pensieri. Quando ci lasciamo guidare da uno stato d’animo, la proliferazione mentale gli tiene dietro. Il pensiero e la saggezza sono due cose diametralmente opposte. Il pensiero non fa che reagire allo stato d’animo e a seguirlo, e vanno avanti così senza una fine in vista. Ma se la saggezza è all’opera, essa fermerà la mente. La mente si ferma e non va più in giro. C’è solo la conoscenza e il riconoscere ciò che si è appena sperimentato: quando sorge questa emozione, la mente è così; quando questo stato d’animo sorge, è in quest’altra maniera. Incrementiamo solo il “conoscere”. Alla fine realizziamo: “Ehi, tutto questo pensare, tutto questo inutile chiacchiericcio, questo preoccuparsi e giudicare, è tutto insensato e immaginario. Tutto è impermanente, insoddisfacente e non-me o mio”. Cacciatelo in una di queste tre caratteristiche onnicomprensive e acquietate l’agitazione. In tal modo lo tagliate alla radice. Più tardi, seduti in meditazione, si rifarà sentire. Tenetelo d’occhio, spiatelo.
E’ come allevare bufali d’acqua. Ci sono: il contadino, qualche pianta di riso e il bufalo. Naturalmente il bufalo vuole mangiare quelle piante di riso. Ai bufali piace mangiare le piante di riso, vero? La vostra mente è un bufalo. Le emozioni inquinanti sono come le pianticelle di riso. il conoscere è il contadino. La pratica del Dhamma è proprio così. Non diversa. Fate voi stessi il paragone. Quando sorvegliate un bufalo, cosa fate? Lo liberate, gli permettete di andarsene in giro libero, ma contemporaneamente lo tenete d’occhio. Se si avvicina troppo alle piante di riso, lo richiamate. Quando il bufalo vi sente, si allontana da esse. Ma non siate distratti, non dimenticatevi del bufalo. Se avete un bufalo ostinato che non fa attenzione ai vostri richiami, prendete un bastone e dategli una forte randellata sul dorso. Vedrete che non oserà avvicinarsi più alle pianticelle di riso. Ma non lasciatevi andare a fare una siesta. Se vi sdraiate e sonnecchiate, quelle piante di riso faranno parte del passato. La pratica del Dhamma è la stessa cosa; controllate la mente; il conoscere stesso fa da sorvegliante alla mente.
“Quelli che sorvegliano accuratamente la loro mente saranno liberati dalle trappole di Mara (la personificazione buddhista delle forze antagoniste all’Illuminazione)”. Eppure anche questa mente che conosce è sempre la mente, e allora chi osserva la mente? Una tale idea vi può procurare parecchia confusione. La mente è una cosa, il conoscere è un’altra; eppure il conoscere trae origine da quella stessa mente. Che vuol dire conoscere la mente? Com’è imbattersi negli stati d’animo e nelle emozioni? Com’è stare senza alcuna emozione inquinante? Ciò che sa cosa sono queste cose è ciò che intendiamo per “conoscere”. Il conoscere segue attentamente la mente, ed è da questo conoscere che nasce la saggezza. La mente è ciò che pensa e rimane impigliata nelle emozioni, una dopo l’altra, proprio come il nostro bufalo. Qualsiasi direzione essa prenda, state all’erta. Come potrebbe sfuggirvi? Se gironzola intorno alle piante di riso, urlatele dietro. Se non ascolta, prendete un bastone e giù una randellata! E’ così che frustrate l’attaccamento.
Addestrare la mente non è quindi diverso. Quando la mente sperimenta un’emozione e subito vi si aggrappa, è compito del conoscere fare da insegnante. Esamina lo stato d’animo per vedere se è positivo o negativo. Spiega alla mente come funziona la legge di causa ed effetto. E quando essa si aggrappa di nuovo a qualcosa che ritiene gradevole, il conoscere deve di nuovo insegnare alla mente, di nuovo deve spiegare la legge di causa ed effetto, fino a che la mente riesce a mettere tutto da parte. Questo porta alla pace della mente. Quando infine scopre che tutto ciò che afferra e a cui si aggrappa è di per sé indesiderabile, semplicemente la smette. Non le interessano più quelle cose, perché incontra uno sbarramento di rimproveri e rabbuffi. Opponetevi alla bramosia della mente con determinazione. Sfidatela apertamente, fino a che l’insegnamento penetrerà nel cuore. E’ così che addestrate la mente.
Fin dal tempo in cui mi sono ritirato nella foresta a meditare, ho praticato in questo modo. Quando addestro i miei discepoli, lo faccio in questa stessa maniera. Perché voglio che vedano la verità, piuttosto che leggere cosa dicono le scritture; voglio che vedano se i loro cuori sono liberi dal pensiero concettuale. Quando avviene la liberazione, ne siete consapevoli; e quando non c’è ancora la liberazione, contemplate il processo per cui una cosa è causa di un’altra. Contemplate fino a che sapete e conoscete tutto ciò ripetutamente e completamente. Una volta che l’avete penetrato attraverso una conoscenza diretta, se ne andrà per i fatti suoi. Quando interviene qualcos’altro e vi sentite impantanati, allora indagate. Non smettete finché quello non ha lasciato la presa. Continuate a indagare proprio in quel punto. Personalmente, è così che mi sono esercitato, perché il Buddha ha detto che dovete arrivare alla conoscenza da soli. Tutti i saggi conoscono la verità da soli. Dovete anche voi scoprirla nelle profondità del vostro cuore. Conoscete voi stessi.
Se avete fiducia in ciò che conoscete e se vi fidate di voi, vi sentite a vostro agio anche se altri vi criticano o vi lodano. Siete a vostro agio qualsiasi cosa dicano gli altri. Perché? Perché conoscete voi stessi. Se uno vi riempie di lodi, ma voi non ne siete pienamente meritevoli, ci credete veramente a quello che vi dicono? Naturalmente no. Andate avanti semplicemente con la vostra pratica del Dhamma. Quando uno che non ha fiducia in ciò che sa viene lodato, tende a crederci e questo distorce la sua percezione. Allo stesso modo, quando qualcuno vi critica, fatevi un bell’esame di coscienza e ditevi: “No, ciò che hanno detto non è vero. Mi accusano di aver sbagliato, ma non è così. Le loro accuse non sono valide”. Se la situazione è questa, a che pro’ arrabbiarsi con loro? Le loro parole non sono sincere. Però se siete in errore proprio come loro vi accusano, allora la critica è corretta. Se così è, a che pro’ arrabbiarsi con loro? Quando riuscite a pensare in questa maniera, vedrete che la vita è veramente pacifica e confortevole. Niente di ciò che avviene è sbagliato. Tutto è Dhamma. E’ così che io ho praticato.
SEGUIRE LA VIA DI MEZZO
E’ il sentiero più breve e più diretto. Se veniste a discutere con me alcuni punti del Dhamma, io non prenderei parte alla discussione. Invece di confutare, vi offrirei alcune riflessioni da tenere presenti. Cercate di capire ciò che il Buddha ha insegnato: lasciate andare tutto. Lasciate andare con conoscenza e consapevolezza. Senza conoscenza e consapevolezza, il lasciar andare non è molto diverso da quello dei buoi e dei bufali. Se non ci mettete il cuore, il lasciar andare non è quello giusto. Lasciate andare perché avete capito la realtà convenzionale. Questo è non-attaccamento. Il Buddha ha insegnato che negli stadi iniziali della pratica del Dhamma dovete lavorare molto, sviluppare completamente le cose e attaccarvi molto. Attaccarvi al Buddha. Attaccarvi al Dhamma. Attaccarvi al Sangha. Attaccarvi con fermezza, profondamente. Questo è ciò che il Buddha ha insegnato. Attaccarvi con sincerità e perseveranza e mantenere la presa.
Durante la mia ricerca, ho provato tutti i metodi possibili di contemplazione. Ho sacrificato la mia vita al Dhamma perché avevo fede nella realtà dell’Illuminazione e del Sentiero che vi conduce. Queste cose esistono veramente, proprio come ha detto il Buddha. Ma per realizzarle è necessario praticare, praticare rettamente. Bisogna spingersi fino al massimo delle proprie possibilità. Ci vuole il coraggio di esercitarsi, di riflettere e di cambiare radicalmente. Ci vuole il coraggio di fare veramente tutto ciò che è necessario. E come lo fate? Addestrando il cuore. I pensieri in testa ci dicono di andare in una certa direzione, ma il Buddha ci dice di andare in un’altra. Perché è necessario addestrarci? Perché il cuore è completamente ricoperto da incrostazioni inquinanti. Un cuore non ancora trasformato dall’esercizio è così. E’ inaffidabile, per cui non credeteci. Non è ancora virtuoso. Come possiamo avere fiducia in un cuore che non ha purezza e chiarezza? Perciò il Buddha ci mise in guardia dal confidare in un cuore impuro. Inizialmente il cuore è solo al servizio delle contaminazioni, e quando i due stanno a lungo assieme, il cuore si guasta e si corrompe. Per questo il Buddha ci ha detto di non riporre fiducia nel cuore.
Se consideriamo attentamente la nostra disciplina monastica, vedremo che tutto si riduce ad esercitare il cuore. E ogni volta che addestriamo il cuore ci sentiamo agitati e infastiditi. Non appena proviamo agitazione o fastidio, cominciamo a lamentarci “Ragazzi, questa pratica è veramente difficile! E’ quasi impossibile”. Ma il Buddha non la pensava così. Egli pensava che quando l’addestramento ci procura agitazione e disagio, vuol dire che siamo sulla strada giusta. Ma noi non la pensiamo così. Pensiamo che siano segni di qualcosa di sbagliato. Questo malinteso fa sembrare la pratica molto difficile. All’inizio sentiamo agitazione, siamo nervosi e allora pensiamo di essere fuori strada. Tutti vogliono star bene, ma non si chiedono se sia corretto o meno. Quando andiamo contro le contaminazioni e sfidiamo la nostra bramosia, è normale che soffriamo. Ci sentiamo agitati, sconvolti, a disagio e infine lasciamo perdere. Pensiamo di essere sulla strada sbagliata. Il Buddha invece avrebbe detto che siamo su quella giusta. Stiamo affrontando le nostre impurità e sono loro che ci procurano agitazione e disagio. Ma pensiamo invece di essere noi stessi agitati e a disagio. Il Buddha invece ci ha detto che sono le impurità che saltano su e si agitano. E’ la stessa cosa per tutti.
Per questo la pratica del Dhamma è così impegnativa. Le persone non esaminano le cose con chiarezza. Generalmente perdono il Sentiero, andando o nella direzione dell’auto-indulgenza o dell'auto-punizione. Si bloccano su uno di questi due estremi. Da una parte ci sono quelli a cui piace indulgere in tutto ciò che il cuore desidera. Fanno tutto ciò che si sentono di fare. Gli piace sedere comodi. Gli piace sdraiarsi e stirarsi comodamente. Tutto quello che fanno, ha lo scopo di farli stare comodi e a loro agio. Questo è ciò che considero auto-indulgenza: attaccarsi alla sensazione confortevole. Con un tale atteggiamento come può progredire la pratica del Dhamma?
Se non riusciamo più a indulgere in comodità, sensualità e benessere, ci irritiamo. Ci sentiamo defraudati, ci arrabbiamo e perciò ne soffriamo a causa di questi sentimenti. Questo è uscire dal Sentiero in direzione dell’auto-punizione. Questa non è la via del saggio, né la via di chi è calmo. Il Buddha ci mise in guardia dal cadere in uno di questi due estremi: dell’auto-indulgenza o dell’auto-punizione. Quando sperimentate un piacere, siatene consci con consapevolezza. Quando sperimentate rabbia, malevolenza e irritazione, rendetevi conto che non state seguendo le orme del Buddha. Non è la via per chi cerca la pace, ma la strada della gente comune. Un monaco che cerca la pace non percorre queste vie. Procede diritto nel mezzo, lasciando l’auto-indulgenza a sinistra e l’auto-punizione a destra. Questa è la corretta pratica del Dhamma.
Se intraprendete questa pratica monastica, dovete camminare sulla Via di Mezzo, senza lasciarvi dominare dalla felicità o dall'infelicità. Lasciatele perdere. Invece sembra proprio che ci spingano da una parte all’altra. Sembriamo il battaglio di una campana, spinto avanti e indietro da un lato all’altro. Nella Via di Mezzo si lascia andare sia la felicità che l’infelicità; la giusta pratica è quella che sta nel mezzo. Quando ci colpisce il desiderio di felicità e non riusciamo a soddisfarlo, proviamo dolore.
Camminare lungo la Via di Mezzo del Buddha è impegnativo e arduo. Ci sono solo quei due estremi, il buono e il cattivo. Se crediamo in quello che essi ci dicono, dobbiamo seguire i loro ordini. Se ci arrabbiamo con qualcuno, immediatamente andiamo a cercare un bastone per picchiarlo. Niente tolleranza e pazienza. Se amiamo qualcuno vogliamo accarezzarlo dalla testa ai piedi. Ho ragione? Questi due estremi non considerano affatto la parte in mezzo. Non è ciò che il Buddha ci ha raccomandato. Egli ci ha insegnato a lasciar gradualmente perdere tutto ciò. La sua pratica segue un sentiero che porta fuori dall’esistenza, lontano dalla rinascita – un sentiero libero dal divenire, dalla nascita, dalla felicità, dall’infelicità, dal bene e dal male.
La gente che brama l’esistenza non vede ciò che sta nel mezzo. Escono dal Sentiero puntando verso la felicità e poi, ignorando completamente il mezzo, passano all’altro lato, all’insoddisfazione e all’irritazione. Non fanno altro che evitare il centro. Questo punto sacro è per loro invisibile, mentre passano correndo da una parte all’altra. Non si fermano lì dove non c’è né esistenza né rinascita. Non gli piace, per cui non si soffermano. O scendono da casa e vengono morsi da un cane o volano in alto e sono beccati da un avvoltoio. Questa è l’esistenza.
L’umanità è cieca a ciò che non ha esistenza, che non ha rinascita. Il cuore umano è cieco a questo, perciò non fa che passargli accanto o evitarlo. La Via di Mezzo del Buddha, il Sentiero della retta pratica del Dhamma, trascende l’esistenza e la rinascita. La mente che è al di là sia della purezza che dell'impurità è libera. Questo è il sentiero del saggio che sta in pace. Se non lo percorriamo non saremo mai dei saggi pacifici. Questa pace non avrà mai occasione di fiorire. Perché? A causa dell’esistenza e della rinascita. Perché c’è nascita e morte. Il sentiero del Buddha non ha né nascita né morte. Non ha alti e bassi. Non ha felicità o sofferenza. Non ha bene o male. E’ un sentiero diretto. E’ il sentiero della quiete e della calma. E’ pacifico, libero dal piacere e dal dolore, dalla felicità e dall’angoscia. Questo è il modo di praticare il Dhamma. Quando si sperimenta ciò, la mente può fermarsi. Può smettere di porre domande. Non c’è più bisogno di andare in cerca di risposte. Ecco perché il Buddha disse che il Dhamma è qualcosa che il saggio conosce da solo, direttamente. Non c’è bisogno di chiederlo a nessuno. Capiamo perfettamente da noi stessi, senza ombra di dubbio, che le cose sono esattamente come il Buddha ha detto che sono.
DEDIZIONE ALLA PRATICA
Vi ho raccontato alcuni episodi della mia pratica. Io non ho grandi conoscenze. Non ho studiato molto. Quello che ho studiato è questo mio cuore e questa mia mente e ho imparato in modo naturale attraverso l’esperienza, i tentativi e gli sbagli. Quando mi piaceva qualcosa, esaminavo quello che mi stava accadendo e a che cosa portava quel desiderio. Inevitabilmente mi spingeva verso una sofferenza futura. La mia pratica era quella di osservare me stesso. Man mano che la comprensione e l’intuizione profonda si approfondivano, riuscii a conoscere me stesso.
Praticate con una irremovibile dedizione! Se volete praticare il Dhamma, cercate di non pensare troppo. Se durante la meditazione vi accorgete che vi state sforzando per raggiungere risultati specifici, allora è meglio che smettiate. Quando la mente si assesta nella pace e cominciate a pensare: “Ecco finalmente! Ci sono, vero? E’ proprio così”, allora fermatevi. Prendete tutte le vostre conoscenze analitiche e teoriche, fatene un fagotto e riponetele in un baule. E non tiratele fuori per discuterle o insegnarle. Non è questo il tipo di conoscenza che penetra all’interno. Sono altri tipi di conoscenza.
Quando si vede qualcosa nella realtà, non sempre corrisponde alla descrizione fattane per iscritto. Per esempio, mettiamo che scriviamo la parola “desiderio sensuale”. Quando il desiderio sensuale invade veramente il cuore, è impossibile che la parola scritta trasmetta lo stesso significato della realtà. Lo stesso accade con la “rabbia”. Possiamo scrivere la parola in maiuscole su un cartello, ma quando veramente siamo arrabbiati l’esperienza non ha niente a che fare con le parole. Non abbiamo neanche il tempo di leggerle quelle parole, prima che il cuore sia inghiottito dalla rabbia.
Questo è un punto molto importante. Gli insegnamenti teorici hanno la loro importanza, ma bisogna che penetrino nel cuore. Devono essere interiorizzati. Non possiamo conoscere veramente il Dhamma se non lo interiorizziamo. Non lo vediamo realmente. Anch’io non facevo eccezione. Non ho una vasta conoscenza, ma ho studiato abbastanza da passare alcuni esami di teoria buddhista. Un giorno ebbi occasione di ascoltare un discorso di Dhamma tenuto da un maestro di meditazione. Mentre ascoltavo cominciai ad avere pensieri poco rispettosi. Non sapevo come ascoltare un vero discorso di Dhamma. Non riuscivo a capire che cosa stesse dicendo quel monaco errante. Era come se il suo insegnamento provenisse da una sua esperienza diretta, come se fosse in contatto con la verità.
Col passare del tempo, man mano che acquisivo una certa padronanza diretta della pratica, vidi da me la verità di cui parlava quel monaco. Compresi in che modo comprendere. E così sulla sua scia sorse una comprensione diretta. Il Dhamma stava mettendo radici nel mio cuore e nella mia mente. Ci volle molto, molto tempo prima che capissi che tutto quello che aveva detto quel monaco errante, proveniva da ciò che aveva visto lui stesso. Il Dhamma che insegnava proveniva direttamente dalla sua esperienza, non da un libro. Parlava secondo la sua comprensione e la sua intuizione profonda. Quando io stesso percorsi il Sentiero, feci l’esperienza di tutti i dettagli che aveva descritto e dovetti ammettere che aveva ragione. Perciò andai avanti.
Cercate di afferrare ogni occasione per praticare il Dhamma. Che sia un momento tranquillo o no, non preoccupatevi di questo. La cosa più importante è mettere in moto la ruota della pratica e creare le cause per la futura liberazione. Se avete fatto un buon lavoro, non c’è bisogno di preoccuparsi dei risultati. Non angosciatevi pensando che non state ottenendo alcun risultato. L’angoscia non è pace. D’altronde se non fate il lavoro, come potete aspettarvi dei risultati? Come potete credere di poter vedere? Solo chi cerca può scoprire. Solo chi mangia, si sazia. Tutto ciò che ci circonda è falso. Continuare a rendersene conto, anche per decine di volte, è già un bene. Quel tizio continua a raccontarci sempre le stesse bugie e storielle. Se ci rendiamo conto che sta mentendo, non è poi così male, ma certe volte ci vuole parecchio tempo prima di accorgercene. Quel tizio proverà a raggirarci ancora e ancora.
Praticare il Dhamma vuol dire mantenere la virtù, sviluppare samadhi e coltivare la saggezza nel cuore. Ricordatevi e riflettete sulla Triplice Gemma: il Buddha, il Dhamma e il Sangha. Abbandonate completamente tutto, senza eccezioni. Le nostre stesse azioni sono le cause e le condizioni che matureranno già in questa vita. Perciò impegnatevi sinceramente nella pratica.
Anche se dobbiamo sederci su una sedia per meditare, possiamo lo stesso tenere fissa l’attenzione. All’inizio non la terremo su molte cose, solo sul respiro. Se preferite, potete ripetere mentalmente le parole “Buddha”, “Dhamma” o “Sangha” insieme ad ogni respiro. Mentre tenete fissa l’attenzione cercate di non controllare il respiro. Se il respiro sembra laborioso o difficile, significa che non abbiamo il giusto approccio. Fino a che non ci sentiremo a nostro agio con il respiro, sembrerà sempre o troppo superficiale o troppo profondo, troppo sottile o troppo grossolano. Ma una volta che ci rilassiamo nel respiro, trovandolo piacevole e comodo, chiaramente consapevoli di ogni ispirazione ed espirazione, allora possiamo dire che ne abbiamo compreso il senso. Se non lo facciamo nel modo corretto, perderemo il respiro. Se questo dovesse accadere allora è meglio smettere per un po’ e rimettere a fuoco la consapevolezza.
Se durante la meditazione sentite l'impulso di sperimentare fenomeni psichici o se la mente diventa luminosa e radiante, o se avete visioni di palazzi celesti, ecc. non abbiate paura. Siate semplicemente consapevoli di ciò che state sperimentando e continuate a meditare. Ogni tanto, può accadere che dopo un po’ il respiro rallenti fino a scomparire. Vi sembra di non sentire più il respiro e vi allarmate. Non preoccupatevi, non c’è niente di cui essere spaventati. Che il respiro sia cessato, lo pensate soltanto; in effetti il respiro è sempre lì, ma lavora a un livello molto più sottile del solito. Dopo un po’ il respiro tornerà normale da solo.
All’inizio concentratevi solo per rendere calma e tranquilla la mente. Dovreste arrivare a un tale livello di meditazione da essere in grado di entrare volontariamente in uno stato di pace, sia che siate seduto in poltrona, o che siate in battello o in qualsiasi altro luogo. Quando salite in treno accomodatevi e portate subito la mente in uno stato di pace. Ovunque siate potete sempre sistemarvi in qualche modo. Questa capacità dimostra che vi state familiarizzando con il Sentiero. Poi cominciate ad indagare. Utilizzate il potere di questa mente tranquilla per indagare nella vostra esperienza. Alcune volte riguarda ciò che udite, altre ciò che vedete, odorate, gustate, provate col corpo o percepite e pensate col cuore o con la mente. Qualsiasi esperienza sensoriale si presenti, che vi piaccia o no, prendetela come un oggetto di contemplazione. Siate semplicemente consci di quello che state sperimentando. Non proiettate significati o interpretazioni sull’oggetto di consapevolezza sensoriale. Se è buono, sapete solo che è buono; se è cattivo, sapete solo che è cattivo. Questa è una realtà convenzionale. Buono o cattivo, è tutto comunque impermanente, insoddisfacente e non-sé. Tutto è inaffidabile. Non c’è niente per cui vale la pena provare attaccamento o aggrapparsi. Se riuscite a mantenere questa capacità di calmare e indagare, sorgerà naturalmente la saggezza. Qualunque cosa venga sperimentata,
percepita, allora andrà a finire sotto queste tre categorie: impermanenza, insoddisfazione, non-sé. Questa è la meditazione vipassana. La mente è ormai tranquilla e quando affiorano stati mentali impuri, cacciateli in uno di questi tre bidoni dell’immondizia. Questa è l’essenza della vipassana: ridurre tutto a impermanenza, insoddisfazione, non-sé. Buono, cattivo, orribile o comunque sia, buttatelo via. In breve, dal bel mezzo delle tre caratteristiche universali fiorirà la comprensione e l’intuizione profonda, anche se questa sarà ancora debole. A questo stadio iniziale la saggezza è ancora fluttuante e debole, ma cercate di mantenere la pratica in modo continuativo. E’ difficile da rendere a parole, ma è un po’ come se qualcuno volesse conoscermi: dovrebbe venire a vivere qui. Gradualmente con il contatto quotidiano arriveremmo a conoscerci.
RISPETTO PER LA TRADIZIONE
E’ tempo ormai che cominciamo a meditare. Meditare per capire, per abbandonare, per lasciare andare e per trovare la pace.
Un tempo ero un monaco errante. Viaggiavo per incontrare i maestri e per cercare la solitudine. Non andavo in giro a offrire discorsi di Dhamma. Andavo ad ascoltare i discorsi di Dhamma dei più grandi maestri del tempo. Non andavo da loro a insegnare. Ascoltavo tutti i consigli che essi mi offrivano. Perfino quando monaci più giovani e inesperti cercavano di dirmi cosa era il Dhamma, ascoltavo pazientemente. Raramente discutevo il Dhamma. Non vedevo l’utilità di lasciarmi coinvolgere in lunghe discussioni. Quando accettavo un insegnamento lo interiorizzavo subito, direttamente, proprio dove sottolineava la rinuncia e il lasciar andare. Quello che facevo lo facevo seguendo rinuncia e lasciar andare. Non abbiamo bisogno di diventare esperti delle scritture. Ogni giorno che passa diventiamo più vecchi e ogni giorno siamo accecati da un miraggio, perdendo di vista la realtà. Praticare il Dhamma è una cosa ben diversa che studiarlo.
Non critico nessuna delle molte tecniche e stili di meditazione. Nessuna è sbagliata fintanto che ne comprendiamo lo scopo e il significato. Però, secondo me, chiamarci meditanti buddhisti e non seguire strettamente il codice monastico di disciplina (vinaya) non funziona. Perché? Perché cerchiamo di evitare una fase vitale del Sentiero. Tralasciare la virtù, il samadhi o la saggezza non va bene. Alcuni potrebbero dirvi di non attaccarvi alla serenità della meditazione samatha: “Non preoccuparti di samatha; vai direttamente alla pratica vipassana di saggezza e intuizione profonda”. Secondo come la vedo io, se cerchiamo di volgerci direttamente verso la vipassana, troveremo che sarà impossibile arrivare alla fine del viaggio.
Non abbandonate la pratica e le tecniche di meditazione di eminenti Maestri della Foresta, quali i venerabili Ajahn Sao, Mun, Taungrut e Upali. La via che hanno insegnato, se la pratichiamo come essi hanno fatto, è totalmente affidabile e vera. Se seguiamo le loro orme avremo una chiara comprensione diretta in noi stessi. Ajahn Sao mantenne una virtù impeccabile. Mai disse che avremmo potuto lasciarla da parte. Se questi grandi Maestri della Foresta hanno raccomandato di praticare la meditazione e la disciplina monastica in un certo modo, dobbiamo cercare di seguirli, se non altro per rispetto verso di loro. Se hanno detto di farlo, facciamolo. Se hanno detto di smetterla perché è sbagliato, allora smettiamola. E lo facciamo perchè abbiamo fede. Lo facciamo mettendoci un'incrollabile sincerità e determinazione. Lo facciamo finché vedremo il Dhamma nel nostro stesso cuore, fino a che saremo il Dhamma. Così hanno insegnato i Maestri della Foresta. Di conseguenza i loro discepoli hanno sviluppato un gran rispetto, ammirazione e affetto per loro, perché, seguendo le loro orme, hanno visto ciò che i loro maestri videro.
Provateci. Fatelo proprio come ve l’ho indicato. Se lo fate veramente, vedrete il Dhamma, sarete il Dhamma. Se cominciate veramente la ricerca cosa mai potrà fermarvi? Le contaminazioni mentali potrete superarle se le avvicinate con la giusta strategia: siate capaci di rinunciare, siate parchi con le parole, accontentatevi di poco, e abbandonate tutte le idee e le opinioni che provengono dall’arroganza e dall’egocentrismo. Allora sarete in grado di ascoltare chiunque, anche se quello che dicono è sbagliato. A maggior ragione sarete anche in grado di ascoltare pazientemente coloro che dicono il vero. Esaminatevi in questo modo. Vi assicuro che è possibile, se ci provate. Ma gli studiosi difficilmente vengono a praticare il Dhamma. Ce ne sono alcuni, ma pochi. E’ un peccato. Il fatto che siate arrivati fino a qui, è già di per sé degno di lode. Significa che avete forza interiore. Alcuni monasteri promuovono solo lo studio. I monaci non fanno altro che studiare, in continuazione, senza fine e non recidono ciò che va reciso. Studiano soltanto la parola “pace”. Ma se riuscite a stare immobili allora scoprirete qualcosa di grande valore. E’ così che dovete portare avanti la vostra ricerca. E’ una ricerca molto importante e completamente immobile. Va diritto al cuore di ciò che avete letto. Ma se gli studiosi non praticano la meditazione, la loro conoscenza mancherà di comprensione. Solo quando mettono in pratica gli insegnamenti, quelle cose che hanno studiato diventeranno allora chiare e vivide.
Perciò cominciate a praticare! Sviluppate questo tipo di comprensione. Provate a stare nella foresta e a vivere a stare in una di queste piccole capanne. Provare per un po’ questo tipo di vita e verificarla da voi stessi sarà di maggior beneficio che solo leggere libri. Poi potrete discutere con voi stessi. Mentre osservate la mente è come se essa lasciasse andare tutto e riposasse nel suo stato naturale. Quando da questo stato naturale di immobilità sorgono increspature e ondeggiamenti sotto forma di pensieri e concetti, vuol dire che si è avviato il processo condizionante dei sankhara. Siate cauti e guardinghi nei riguardi di questo processo di condizionamento. Quando viene smossa, scacciata dal suo stato naturale, la pratica del Dhamma non va più nella direzione giusta. Diventa o auto-indulgenza o auto-punizione. Proprio così. E’ questo che fa sorgere la rete dei condizionamenti mentali. Se lo stato mentale è buono, il condizionamento sarà positivo. Se è cattivo, il condizionamento sarà negativo. Tutto ciò ha origine nella vostra stessa mente.
Vi posso proprio dire che osservare da vicino come lavora la mente è un gran divertimento. Potrei parlare su questo argomento per tutta la giornata. Quando riuscite a vedere il comportamento della mente, vedrete anche come funzionano questi processi e come la mente subisce un continuo lavaggio del cervello da parte delle impurità mentali. Io vedo la mente solo come un unico punto. Gli stati psicologici sono ospiti che vengono a visitare questo punto. Alcuni vengono per una qualche richiesta, altri a intrattenersi in visita. Arrivano nella sala d'aspetto. Esercitate la mente in modo da osservarli e conoscerli con gli occhi di una vigile consapevolezza. E’ così che vi prendete cura del cuore e della mente. Quando un visitatore si presenta fategli cenno di allontanarsi. Se li fate entrare, dove li accomodate? C’è un solo posto e ci siete seduti voi. Passate tutta la giornata su quel punto.
Questa è l’incrollabile e ferma consapevolezza del Buddha che vigila e protegge la mente. Siete seduti proprio lì. Fin da quando siete emersi dal ventre di vostra madre, ogni visitatore che si è presentato è arrivato proprio lì. Non importa quante volte vengano, vengono comunque sempre allo stesso punto. Siccome li conosce tutti, la consapevolezza del Buddha è seduta lì sola, ferma e incrollabile. I viaggiatori arrivano cercando di influenzare in qualche modo la mente, di condizionarla o agitarla. Quando riescono a coinvolgere la mente nei loro problemi, sorgono gli stati psicologici. Qualunque sia il problema, ovunque porti, lasciatelo andare, non ha alcuna importanza per voi. Semplicemente riconoscete gli ospiti man mano che arrivano. Una volta entrati si accorgeranno che c’è solo una sedia, e fino a che la occupate voi non avranno un posto dove sedersi. Arrivano pensando di riempirvi le orecchie di pettegolezzi, ma questa volta non c’è posto per loro. E la prossima volta che ritornano troveranno che di nuovo non c’è una sedia libera. Non importa quante volte questi visitatori importuni si faranno vedere, essi incontreranno sempre la stessa persona seduta allo stesso posto. Non vi siete mai mossi da quella sedia. Per quanto tempo continueranno ad andare avanti? Semplicemente parlando con loro riuscite a conoscerli benissimo. Tutte le cose e tutte le persone che avete conosciuto da quando sperimentate il mondo, verranno a farvi visita. Per vedere il Dhamma in modo completo basta osservarli ed esserne consapevoli proprio lì. Discutete, osservate e contemplate per conto vostro.
E’ così che si discute il Dhamma. Io non so parlare di nient’altro. Posso andare avanti a parlare in questo modo, ma alla fine non è altro che parlare e ascoltare. Vi consiglierei perciò di andare a praticare realmente.
CONOSCERE A FONDO LA MEDITAZIONE
Se guardate con i vostri occhi, avrete certe esperienze. C’è il Sentiero che vi guida e vi dirige. Man mano che andate avanti, la situazione cambia e dovete adattare il vostro approccio per rimediare ai problemi che sorgono. Può passare un certo tempo prima che vediate un’indicazione stradale chiara. Se volete intraprendere lo stesso Sentiero che io ho percorso, il viaggio deve senz’altro aver luogo all’interno di voi, nel vostro cuore. Altrimenti, incontrerete numerosi ostacoli.
E’ lo stesso che sentire un suono. Il sentire è una cosa, il suono un’altra, e noi siamo consci di questo senza mischiare le due cose. Contiamo sulla natura affinché ci fornisca il materiale grezzo su cui indagare per la ricerca della Verità. Poi la mente seziona e separa da sé i fenomeni. Cioè la mente semplicemente non viene coinvolta. Quando l’orecchio sente un suono osservate ciò che avviene nella mente e nel cuore. Vi si impigliano, vengono intrappolati e trascinati via dal suono? Si irritano? Perlomeno cercate di conoscere questo. Quando un suono poi viene registrato, non disturberà più la mente. Stando qui, prendiamo le cose più a portata di mano invece di quelle lontane. Anche se volessimo sfuggire al suono, non potremmo farlo. L’unico modo per sfuggirlo è esercitare la mente a rimanere ferma di fronte ad esso. Mettetelo giù il suono. Anche se abbandoniamo il suono, possiamo udire lo stesso. Sentiamo, ma lasciamo andare il suono, perchè lo abbiamo già messo giù. Non è che dobbiamo separare forzatamente il suono dalla mente. Se ne separa automaticamente lei stessa, quando abbandoniamo e lasciamo andare. Poi, anche se vogliamo attaccarci al suono, la mente non lo può più fare. Perché, una volta compresa la vera natura delle cose visibili, dei suoni, degli odori, dei sapori e del resto, e quando il cuore vede chiaramente, allora le cose che riguardano i sensi, tutte senza eccezione, ricadono sotto il dominio delle caratteristiche universali di impermanenza, insoddisfazione e mancanza di un sé.
Ogni volta che si sente un suono va compreso nei termini di queste tre caratteristiche universali. Ogni volta che c’è contatto sensoriale con l’orecchio, noi sentiamo, ma è come se non sentissimo. Ciò non significa che la mente non funziona più. La consapevolezza e la mente si intersecano e si fondono per controllarsi a vicenda, sempre, senza sosta. Quando la mente raggiunge questo livello di pratica, non ha importanza che via sceglieremo per svolgere la nostra ricerca. Coltiveremo l’indagine dei fenomeni - uno dei fattori essenziali di illuminazione - e questa analisi proseguirà per conto suo seguendo il proprio impulso.
Discutete il Dhamma con voi stessi. Fate in modo da districare e liberare i sentimenti, i ricordi, le percezioni, i pensieri, le intenzioni, la coscienza. Niente riuscirà a toccarli se lasciate che continuino a svolgere le loro funzioni indisturbati. Per coloro che dominano la propria mente, questo processo di riflessione e indagine scorre automaticamente; non c’è bisogno di dirigerlo intenzionalmente. Verso qualunque direzione la mente si volga, immediatamente è presente la contemplazione.
Se la pratica del Dhamma tocca questi livelli, ci saranno anche altri benefici collaterali. Durante la notte non russeremo, non parleremo nel sonno, non digrigneremo i denti, e non ci gireremo continuamente nel letto. Anche svegliandoci da una profonda dormita, non ci sentiremo sonnolenti. Saremo pieni di energia e vigili come se fossimo sempre rimasti svegli. Un tempo io russavo, ma da quando la mente sta sempre sveglia e vigile, non russo più. Come si può russare da svegli? E’ solo il corpo che si ferma e dorme. La mente è completamente sveglia giorno e notte, sempre. Questa è la pura e sublime consapevolezza del Buddha: di Colui che Conosce, del Risvegliato, del Gaudioso, del perfettamente Radiante. Questa chiara consapevolezza non dorme mai. L’energia si auto-rigenera e mai si intorpidisce o impigrisce. A questo stadio possiamo andare avanti senza dormire per due o tre giorni. Quando il corpo dà segni di esaurimento, ci sediamo in meditazione e immediatamente entriamo in un profondo samadhi per cinque o dieci minuti. Quando usciamo da questo stato ci sentiamo freschi e rinvigoriti come se avessimo dormito tutta la notte. Se non abbiamo eccessive preoccupazioni per il nostro corpo, il sonno ha un’importanza minima. Prendiamo tutte le misure necessarie per curare il corpo, ma non mettiamoci in ansia per le sue condizioni fisiche. Che segua le leggi di natura. Non dobbiamo essere noi a dire al corpo cosa deve fare. Se lo dice da solo. E’ come se qualcuno ci stimolasse, ci spronasse a sforzarci sempre di più. Anche se ci sentiamo pigri, è come se ci fosse una voce che ci sprona continuamente a essere diligenti. A questo punto è impossibile ristagnare, perché lo sforzo e il progresso hanno acquisito un innarrestabile impulso. Controllate voi stessi. E’ da parecchio che studiate e imparate; ora è tempo di studiare e imparare su di voi.
All’inizio della pratica del Dhamma è di vitale importanza ritirarsi in isolamento. Quando viviamo da soli in isolamento ricordiamoci le parole del Ven. Sariputta: “L’isolamento fisico è causa e condizione per il sorgere dell’isolamento mentale, di stati di profondo samadhi liberi da ogni contatto sensoriale esterno. Questo isolamento della mente è, a sua volta, causa e condizione per l’isolamento dalle contaminazioni mentali, e per l’illuminazione”. Eppure c’è ancora gente che dice che l’isolamento non è importante: “se il cuore è tranquillo non ha importanza dove si sta”. E’ vero, ma dovremmo considerare che all’inizio è importante l’isolamento fisico in un ambiente adatto. Oggi stesso o al più presto, cercate un cimitero solitario in una foresta remota, lontana da ogni abitazione. Provate a vivere completamente da soli. Oppure cercate una vetta maestosa che incuta timore. Andateci da soli. D'accordo? Vi divertirete un sacco per tutta la notte. Solo allora capirete da voi stessi. Ci fu un tempo che anch’io pensavo che l’isolamento fisico non fosse poi così importante. Era quello che pensavo, ma una volta che lo sperimentai veramente, ebbi modo di riflettere su ciò che aveva detto il Buddha. Il Beato aveva raccomandato ai suoi discepoli di praticare in luoghi remoti lontani dalla società umana. Ciò costituisce la base per un isolamento interno della mente che a sua volta porta al totale isolamento dalle contaminazioni.
Supponiamo che siate una persona con casa e famiglia. Che isolamento potete avere? Quando tornate a casa, appena mettete piede sulla soglia, venite bersagliati dalla confusione e dai problemi. Questo non è isolamento fisico. Allora ve ne andate a fare un ritiro in un luogo remoto e l’atmosfera qui sarà completamente diversa. E’ necessario comprendere l’importanza dell’isolamento fisico e della solitudine negli stadi iniziali della pratica del Dhamma. Poi cercate un maestro di meditazione che vi istruisca, che vi guidi, vi consigli e corregga quei punti in cui la vostra comprensione è errata. Perché è proprio dove non capite bene e sbagliate che credete di essere nel giusto. Una volta che il maestro ve lo abbia spiegato, capite ciò che è sbagliato, e proprio dove il maestro dice che vi eravate sbagliati, proprio lì voi pensavate di essere nel giusto.
Per quanto ne so, c’è un certo numero di monaci buddhisti studiosi che cercano e ricercano basandosi sulle scritture. Non c’è nessuna ragione che ci impedisca di sperimentare. Quando è il momento di aprire i libri e studiare, impariamo in quel modo. Ma quando è il momento di armarsi e di buttarsi nella battaglia potremmo trovarci a combattere in un modo che non corrisponde alla teoria. Se un guerriero va in battaglia e combatte secondo quanto ha appreso dai libri, non potrà tener testa al nemico. Quando il guerriero è sincero e la lotta è reale, deve lottare in un modo che va oltre la teoria. E’ proprio così. Le parole del Buddha nelle scritture sono solo linee guida ed esempi da seguire; limitarsi a studiarle potrebbe portarci a non dare la giusta importanza al lato pratico.
La via dei Maestri della Foresta è la via della rinuncia. Su questo Sentiero vi è solo rinuncia. Sradichiamo le opinioni che sorgono dall’egocentrismo. Sradichiamo la stessa essenza del senso del sé. Vi assicuro che questa pratica sarà una sfida radicale per voi: andrà dritta all’essenza, ma per quanto difficile sia, non rinunciate ai Maestri della Foresta e ai loro insegnamenti. Senza una guida adatta, la mente e il samadhi possono essere molto ingannevoli. Possono accadere cose che ci sembravano impossibili. Mi sono sempre avvicinato a questi fenomeni con cautela e attenzione. Quando ero un giovane monaco, all’inizio della mia pratica nei primi anni, non potevo ancora aver fiducia nella mia mente. Però man mano che acquisivo una considerevole esperienza e potevo fidarmi del lavoro della mente, niente costituiva più un problema. Anche se si presentavano strani fenomeni, li lasciavo fare. Se sappiamo come funzionano queste cose, esse cessano da sole. E’ tutto cibo per la saggezza. Col passare del tempo ci troveremo perfettamente a nostro agio.
In meditazione, cose che di solito non sono sbagliate possono invece divenire sbagliate. Per esempio ci sediamo a gambe incrociate con la determinazione e la risoluzione: “Va bene, questa volta niente compromessi. Concentrerò la mente. State a vedere”. Non c’è alcuna possibilità che questo sistema funzioni. Ogni volta che ci provavo era un fallimento. Ma ci piace fare gli spacconi. Per quanto mi risulta, la meditazione va avanti con un suo ritmo. Molte sere, sedendomi per la meditazione, pensavo “Va bene, questa sera non mi muoverò di qui, perlomeno fino all’una di mattina”. Già questo pensiero predisponeva un kamma negativo; infatti non passava tanto tempo che il corpo veniva assalito da un’infinità di dolori, che mi opprimevano fino al punto da pensare che stavo per morire. Però nei periodi in cui la meditazione andava bene non ponevo limiti alla durata della seduta. Non mi dicevo “alle 8 o 9 o 10” o a un’ora qualsiasi, ma semplicemente stavo seduto, continuando con fermezza, lasciando andare con equanimità. Non forzate la meditazione. Non cercate di interpretare ciò che sta accadendo. Non costringete il cuore a rispondere a impossibili richieste di entrare in stato di samadhi; altrimenti diventerà più agitato e imprevedibile del solito. Lasciate che il cuore e la mente si rilassino, comodi e a loro agio.
Lasciate che il respiro fluisca facilmente con un suo proprio ritmo, né troppo corto né troppo lungo. Non cercate di trasformarlo in qualcosa di speciale. Lasciate che il corpo si riposi, comodo e a suo agio. Poi continuate. La mente vi chiederà: “Fino a che ora mediteremo stasera? A che ora smetteremo?” Brontola senza sosta, per cui dovete rimproverarla aspramente, “Ehi ragazza mia, lasciami in pace, smettila”. Questa intrigante che non fa che porre domande va regolarmente messa a tacere, perché non sono altro che le contaminazioni che vengono a disturbarvi. Non prestate loro attenzione. Dovete essere duri: “Che io smetta subito o vada avanti tutta la notte, non sono affari tuoi! Se voglio rimanere seduto tutta la notte non deve importare a nessuno, perciò perché vieni qui a mettere il naso nei miei affari di meditazione?” Dovete cacciare via quell’impicciona. Poi potete continuare a meditare quanto volete, secondo quello che ritenete giusto.
Quando permettete alla mente di rilassarsi ed essere a suo agio, diventerà calma. Facendo questo tipo di esperienza, sapete allora riconoscere e valutare il potere dell’attaccamento. Quando riuscirete a stare seduti a lungo, molto a lungo, oltre la mezzanotte, sempre comodi e rilassati, allora vuol dire che state diventando padroni della vostra meditazione. Capirete che veramente l’attaccamento contamina la mente. Alcuni, quando si siedono a meditare, accendono un bastoncino d’incenso e giurano a se stessi “Non mi alzerò fino a quando questo bastoncino d’incenso non sarà finito”. Poi si siedono. Dopo un tempo che a loro pare un’ora aprono gli occhi e realizzano che sono passati solo cinque minuti. Guardano l’incenso, delusi da quanto sia ancora lungo il bastoncino. Chiudono gli occhi e continuano. Ma presto gli occhi si aprono di nuovo a controllare il bastoncino d’incenso. Gente che medita così non arriva da nessuna parte. Non fatelo. Se vi sedete e cominciate a pensare a quel pezzetto d’incenso - “Mi chiedo se sarà finalmente finito” - la meditazione non va avanti. Non date importanza a cose del genere. La mente non deve fare niente di speciale.
Se ci poniamo il compito di sviluppare la mente con la meditazione, non permettete all’avidità inquinante di conoscere le regole del gioco o il vostro scopo. “Come mediterai ora, Venerabile?” domanda. “Per quanto ne avrai? Fino a che ora pensi di andare avanti?” L’avidità continua a imperversare fino a che ci arrendiamo e arriviamo a un accordo. Una volta che diciamo che staremo seduti fino a mezzanotte, quella comincerà a tormentarci. Prima ancora che sia passata un’ora ci sentiremo così agitati e impazienti da non poter continuare. Altri impedimenti ci assaliranno, proprio mentre ci rimproveriamo. “ Ma dai! Pensi che questa seduta ti ucciderà? Hai detto che volevi passare la mente nel samadhi, e invece è ancora instabile e gira a vuoto. Hai fatto una promessa ma non l’hai mantenuta”. Sono pensieri di sconforto e di frustrazione che assalgono la mente e ci sprofondano in un mare di auto-accuse. Non c’è nessun altro da rimproverare o con cui arrabbiarsi e questo rende tutto più difficile. Una volta fatto un giuramento dobbiamo mantenerlo. O lo manteniamo o moriamo. Se facciamo il giuramento di sedere per un certo tempo, non dovremmo poi infrangere la promessa e smettere. Nel frattempo però praticate e maturate in modo graduale. Non c’è nessun bisogno di fare voti sensazionali. Cercate invece di allenare la mente con fermezza e costanza. Di tanto in tanto avrete una meditazione tranquilla, e spariranno tutti i dolori e i disagi del corpo. Il dolore alle caviglie e alle ginocchia smetterà da solo.
Se, mentre proviamo a coltivare la meditazione, cominciano a sorgere strane immagini, visioni o percezioni sensoriali, la prima cosa da fare è controllare lo stato della nostra mente. Non omettete questo passo essenziale. La mente deve essere relativamente tranquilla perché possano sorgere queste immagini. Non desiderate che appaiano e non desiderate che non appaiano. Se sorgono, esaminatele, ma non permettete loro di ingannarvi. Ricordatevi che non sono vostre. Sono impermanenti, insoddisfacenti e prive di un sé, proprio come qualsiasi altra cosa. Anche se fossero reali non fermatevi su di esse, prestandovi troppa attenzione. Se si rifiutano ostinatamente di sparire, allora riportate l’attenzione sul respiro con maggior vigore. Prendete tre lunghi respiri e ogni volta esalate liberando completamente i polmoni. Questo può risolvere la cosa. Cercate di rifocalizzare l’attenzione.
Non impossessatevi di questi fenomeni. Non sono altro che quello che sono, e ciò che sono provoca potenzialmente un’illusione. O ci piacciono e ce ne innamoriamo, oppure la mente si intossica di paura. Sono inaffidabili: possono non essere veri o possono non essere affatto quello che sembrano. Se li sperimentate non cercate di interpretarne il significato o proiettare un significato in essi. Ricordatevi che non sono voi, perciò non correte dietro a queste visioni o sensazioni. Invece, andate subito a controllare lo stato presente della mente. Questa è la nostra regola pratica. Se non teniamo conto di questo principio basilare e ci lasciamo trascinare in ciò che crediamo di vedere, va a finire che ci dimentichiamo di noi stessi, cominciamo a parlare a vanvera o anche a dare i numeri. Possiamo perdere la bussola fino al punto da non poterci più relazionare con gli altri a un livello normale. Confidate nel cuore. Qualsiasi cosa accada continuate ad osservare il cuore e la mente. Esperienze meditative strane possono essere benefiche per coloro che hanno saggezza, ma pericolose per quelli che non ce l’hanno. Qualsiasi cosa avvenga non esaltatevi né allarmatevi. Se ci sono esperienze particolari, ci sono e basta.
Un altro modo di praticare il Dhamma è quello di contemplare ed esaminare tutto ciò che vediamo, facciamo e sperimentiamo. La meditazione non ha mai fine. Alcuni credono che quando hanno finito le sessioni di meditazione seduta o camminata, bisogna smettere e riposarsi. Smettono di concentrare la mente sull’oggetto di meditazione o sul tema di contemplazione. Li lasciano perdere completamente. Non praticate così. Indagate su ogni cosa che vedete per capire come è realmente. Contemplate la buona gente del mondo. Contemplate anche quella cattiva. Osservate profondamente il ricco e il potente; il povero e il reietto. Quando vedete un bambino, una persona anziana, un giovane o una giovane, indagate sul significato dell’età. Tutto è materiale di indagine. E’ così che coltivate la mente. La contemplazione che porta al Dhamma è la contemplazione della condizionalità, del processo di causa ed effetto, in tutte le sue manifestazioni: maggiore o minore, bianco o nero, buono o cattivo. In breve, tutto. Quando avete un pensiero, riconoscetelo come un pensiero e contemplate che è solo quello, niente di più. Tutte queste cose vanno a finire nel cimitero dell’impermanenza, dell’insoddisfazione e del non-sé, per cui non attaccatevi morbosamente a nessuna di esse. E’ il cimitero di tutti i fenomeni. Seppelliteli o cremateli per poter sperimentare la Verità.
Avere un'intuizione profonda nell’impermanenza vuol dire non lasciarsi andare alla sofferenza. Bisogna indagare con saggezza. Per esempio, otteniamo qualcosa che riteniamo buono o piacevole e perciò ne siamo felici. Osservate da vicino e a lungo questa cosiddetta bontà e piacevolezza. Certe volte, dopo un po’ che l’abbiamo, ce ne stufiamo. Vogliamo dar via l’oggetto che l’ha procurata oppure venderlo. Se non c’è nessuno disposto a comprarlo, siamo pronti a buttarlo via. Perché? Cosa c’è dietro a questo modo di fare? Tutto è impermanente, incostante, mutevole, ecco il perché. Se non possiamo venderlo o addirittura nemmeno gettarlo, cominciamo a soffrire. Tutto ruota intorno a questo. Ma una volta che abbiamo compreso perfettamente un tale evento, quando sorgeranno altre situazioni simili, comprenderemo che sono la stessa cosa. Questo è semplicemente il modo in cui sono le cose. Come si suol dire “Quando ne avete visto uno, li avete visti tutti”.
Certe volte vediamo cose che non ci piacciono. Altre volte sentiamo rumori spiacevoli che ci disturbano e perciò ci irritiamo. Esaminate tutto ciò e ricordatevelo. Perché forse in un prossimo futuro potrà capitare che ci piaceranno quegli stessi rumori che oggi ci disturbano. Potremmo addirittura deliziarci di quello che un tempo detestavamo. E’ possibile! Allora, in un lampo di chiarezza e intuizione profonda, capiremo “Aha! Tutto è impermanente, incapace di soddisfare completamente, e senza un sé.”. Buttateli nella tomba comune delle tre caratteristiche universali. E allora cesserà l’attaccamento a ciò che è piacevole, a ciò che possediamo, a ciò che siamo. Giungeremo a vedere che tutto è fondamentalmente la stessa cosa. Allora ogni cosa che vediamo genererà una visione profonda del Dhamma.
Ho detto tutto ciò perché voi possiate ascoltare e pensarci sopra. E’ una chiacchierata, e basta. Quando la gente viene a vedermi, io parlo. Questo argomento non è tale da doversi sedere in circolo e parlarne per ore.
Fatelo e basta. Comprendetelo e fatelo. E’ come quando chiamiamo un amico per andare insieme in qualche posto. Lo invitiamo. Ne riceviamo una risposta. Poi usciamo senza farne un problema. Diciamo solo quello che va detto e basta. Sulla meditazione io vi posso dire due o tre cose perché l’ho praticata. Ma può darsi che sbagli, sapete. Il vostro compito è quello di indagare e scoprire voi stessi se ciò che ho detto è vero.